Ageism: Quando l’Età Apre la Strada ai Pregiudizi

Keywords: ageism; anziani; stereotipi descrittivi e prescrittivi; discriminazione sul lavoro.

La suddivisione della popolazione in tre categorie d’età – i giovani, gli adulti e gli anziani – costituisce un criterio ampiamente utilizzato nella nostra società: è su questa base che si stabilisce chi deve studiare, lavorare, votare e così via. Questa rigida tripartizione favorisce un particolare tipo di pregiudizio, l’ageism, ossia gli stereotipi, gli atteggiamenti e i comportamenti intergenerazionali che nuocciono al gruppo o alla persona che ne è il target. Si tratta di un pregiudizio del tutto particolare perché ogni persona ne può diventare prima o poi l’oggetto; tuttavia è stato molto sottostimato dalla ricerca e le sue conseguenze sono tuttora scarsamente considerate.   

Fu lo psichiatra Robert Butler a introdurre il termine ageism nel lessico scientifico. In un lavoro pubblicato negli anni Sessanta del secolo scorso, Butler definì l’ageism come il “pregiudizio di un gruppo di età nei confronti di altri gruppi d’età” (1969, p. 243). Nonostante questa definizione allargata, la collocazione dell’articolo sulla rivista The Gerontologist e i successivi sviluppi del tema da parte dello stesso Butler – vinse il premio Pulitzer con un libro sulla condizione degli anziani negli Stati Uniti – hanno contribuito a focalizzare l’interesse soprattutto sugli atteggiamenti negativi e la discriminazione nei confronti degli anziani e a trascurare l’altro gruppo particolarmente colpito, quello dei giovani. Sono soprattutto gli anziani e i giovani, infatti, i due gruppi d’età che l’ageism danneggia maggiormente: essi sono bersagliati da pregiudizi, anche incrociati, poiché il loro status sociale è inferiore a quello degli adulti – hanno meno disponibilità economica, meno potere, meno considerazione (Garstka, Hummert, & Branscombe, 2005). L’adulto (in particolare l’adulto di sesso maschile) costituisce il prototipo dell’essere umano, ossia l’esemplare che ne rappresenta al meglio le caratteristiche, e rispetto al quale i giovani e gli anziani sono considerati incompleti, insufficienti, imperfetti (Mucchi Faina, 2013). 

Questo articolo è focalizzato sull’ageism nei confronti degli anziani e questo per tre principali motivi. Innanzitutto, il peso relativo della popolazione anziana nelle nostre società sta crescendo ed è destinato a crescere ancor più in futuro. Il dato è impressionante: si prevede che la metà dei bambini nati nei paesi più sviluppati dal 2000 in poi raggiungeranno il loro centesimo compleanno (Tugend, 2011).  In secondo luogo, se nel suo insieme la ricerca sull’ageism è ancora scarsa e di gran lunga numericamente inferiore rispetto a quella riguardante altre forme di pregiudizio, quella sui pregiudizi nei confronti dei giovani è quasi inesistente. Infine, sebbene i giovani si considerino discriminati – in Italia molto discriminati (Albanesi, Cicognani, & Zani, 2011) – e se ne lamentino più degli anziani (Snape & Redman, 2003), essi vivono un’esperienza transitoria, destinata a terminare nel momento in cui entreranno a far parte del mondo degli adulti. Per questo motivo l’ageism nei loro confronti incide moderatamente sulla loro autostima (Gartska et al. 2004). Non è così per gli anziani: essi sanno che per loro ogni via d’uscita è preclusa, che si tratta di una condanna definitiva. 

Chi Sono gli Anziani? Criteri e Stereotipi Descrittivi

I confini tra le fasce d’età sono tutti piuttosto fluttuanti: variano in relazione a diversi fattori quali, per esempio, il contesto (un atleta è ritenuto anziano già a 35 anni, un senatore è giovane a 40), la cultura (per i norvegesi si è giovani fino a 35 anni, per i greci fino a 52), l’età di chi li stabilisce (coll’aumentare dell’età si tende a spostare in avanti l’inizio della vecchiaia; Abrams, Vauclair, & Swift, 2011). Per consuetudine, nella ricerca medica, statistica e psicologica, si considerano giovani le persone al di sotto dei trentacinque anni (almeno in Italia) e anziane quelle che hanno superato i sessantacinque. North e Fiske (2013a) hanno fatto notare come sia inappropriato considerare gli anziani come un unico gruppo indifferenziato e hanno insistito sulla necessità di distinguere i giovani-anziani (65-75 anni) dagli anziani-anziani (oltre i 75 anni). Secondo questi autori si tratta di una distinzione necessaria non solo perché i due gruppi hanno bisogni ed esigenze diverse, ma anche perché l’ageism nei loro confronti può manifestarsi in luoghi e modi assai differenti. Questa bipartizione, tuttavia, non è stata per il momento adottata nella ricerca psicosociale. Anche alle differenze di genere la ricerca fino a ora ha dedicato scarsa attenzione, sebbene il concetto di doppio standard in riferimento al diverso peso e significato che l’età e l’invecchiamento hanno per donne e uomini sia stato da molto tempo rilevato (Sontag, 1999).  

Lo stereotipo descrittivo (si veda glossario) globale degli anziani contiene aspetti positivi e aspetti negativi: li raffigura come persone sagge ma deboli in salute, calde ma incompetenti, amabili ma passive e socialmente marginali (Cuddy & Fiske, 2002; una rassegna in North & Fiske, 2012). Tuttavia, poiché gli anziani costituiscono un gruppo particolarmente disomogeneo, sono stati individuati nel tempo diversi sottotipi. I sottotipi tendono a formarsi quando le informazioni che riceviamo circa una persona non sono congruenti con lo stereotipo della categoria generale a cui la persona appartiene. 

Una ripartizione classica (Brewer, Dull, & Lui, 1981) fa riferimento a tre principali sottotipi (si veda glossario): la nonna (una donna dedicata agli altri, gentile, serena e affidabile), lo statista senior (uomo intelligente, attivo e rispettato) e la vecchia/il vecchio (individuo, di entrambi i sessi, rappresentato come sorpassato, debole, inattivo e solitario). 

Questi sottotipi si avvicinano più o meno allo stereotipo della categoria sovraordinata: la nonna illustra maggiormente lo stereotipo benevolente dell’anziano, la vecchia/il vecchio ne rappresentano un aspetto meno positivo se non più ostile, mentre lo statista si discosta completamente dallo stereotipo generale della categoria. Nel corso del tempo sono stati individuati una serie di altri sottotipi (ad es., il burbero gagliardo alla John Wayne) ma la maggior parte delle ricerche sull’ageism ha fatto riferimento allo stereotipo globale (tra le poche eccezioni, Jelenec & Steffens, 2002).

 

Pregiudizi Manifesti e Nascosti

Come per altri tipi di pregiudizio che disattendono le norme di desiderabilità e correttezza sociale, l’ageism nei confronti degli anziani si manifesta raramente come aperta ostilità e in situazione pubblica. Affiora spesso, invece, e non solo nelle forme più benevole, nei colloqui informali o in modo inconsapevole. Un’indagine condotta attraverso il web e basata su un campione di oltre sessantamila persone di tutte le età ha permesso di verificare che, nelle sue forme più nascoste, questo pregiudizio è condiviso dagli anziani stessi (Nosek, Banaji & Greenwald, 2002). I ricercatori hanno utilizzato sia una misura esplicita sia una implicita di pregiudizio nei confronti di varie categorie di persone tra cui i giovani e gli anziani. Nella forma esplicita si confrontava apertamente l’atteggiamento verso i giovani con quello verso gli anziani, chiedendo ai partecipanti se preferissero gli uni o gli altri. La misura implicita consisteva invece in una versione semplificata dello IAT (Implicit Association Test; Greenwald, McGhee & Schwartz, 1998), uno strumento che permette di inferire atteggiamenti e stereotipi misurando il tempo che una persona impiega a rispondere (sì o no) quando a una parola o a una immagine vengono appaiati una serie di attributi di opposta valenza (ad es., buono o cattivo). L’idea è che la risposta sarà tanto più rapida quanto più la parola e l’attributo sono percepiti dalla persona come coerenti. In questo caso gli attributi di valenza positiva o negativa sono stati appaiati a immagini di persone anziane e giovani o a nomi di persona sorpassati (ad es., Gertrude) e moderni (ad es., Cindy). Sono stati poi confrontati i tempi di risposta ad associazioni ritenute coerenti –  ad es., l’immagine di una persona anziana o del nome Gertrude  con l’attributo cattivo o l’immagine di una persona giovane o del nome Cindy con l’attributo buono – con quelli ad associazioni ritenute incoerenti – ad es., l’immagine di una persona anziana o del nome Gertrude  con l’attributo buono o l’immagine di una persona giovane o del nome Cindy con l’attributo cattivo.  La differenza tra i tempi di risposta alle associazioni coerenti e quelle incoerenti costituiva la misura dell’atteggiamento implicito nei confronti degli anziani in rapporto ai giovani. Complessivamente i rispondenti hanno espresso un atteggiamento più positivo nei confronti dei giovani che degli anziani sia con la misura esplicita sia con quella implicita.  L’atteggiamento implicito nei confronti degli anziani si è rivelato più negativo di quello verso tutte le altre categorie (ad es., di genere, etniche) prese in esame ed è comunque apparso molto più negativo di quello esplicito, confermando l’idea che la norma sociale esorti a non esprimere apertamente pregiudizi nei confronti degli anziani. Nelle due dimensioni, tuttavia, l’atteggiamento ha mostrato un andamento differente. Mentre a livello esplicito è risultato meno negativo con l’aumentare dell’età dei rispondenti – diventando leggermente positivo nelle persone di settanta e più anni – a livello implicito non si sono rilevate variazioni in ragione dell’età, avvalorando così l’idea che gli stessi anziani condividano inconsapevolmente il pregiudizio nei loro confronti. 

Stereotipi e Prescrizioni Intergenerazionali

Mentre gli stereotipi descrittivi (si veda glossario) sono basati sul consenso sociale e spesso fatti propri anche da coloro che ne sono l’oggetto, gli stereotipi prescrittivi (si veda glossario) sono assunti soprattutto da gruppi esterni che si percepiscono interdipendenti con il gruppo target dello stereotipo.  Tutti i gruppi d’età sono interdipendenti, ma una ricerca ha mostrato che gli stereotipi prescrittivi degli anziani sono assunti con più forza dai giovani che dagli adulti perché i giovani pensano che il raggiungimento dei loro obiettivi dipenda in gran parte dai comportamenti degli anziani (North e Fiske, 2013b). Questo tipo di ageism ruota intorno a tre concetti (North e Fiske 2013c). Il primo è quello di consumo: alcune ricerche condotte negli Stati Uniti hanno mostrato che i giovani considerano gli anziani come consumatori passivi delle risorse comuni, non solo perché spesso necessitano di onerose cure mediche che pesano sul bilancio pubblico ma anche perché a loro sono concesse agevolazioni sociali di vario tipo (tariffe ridotte, posti riservati, minori tempi di attesa, ecc.). Il secondo concetto è quello di identità. I giovani sono motivati a mantenere ben chiari i confini tra le generazioni (Schoemann & Branscombe, 2010): gli anziani non devono cercare di apparire giovani, assumere comportamenti o appropriarsi di luoghi prettamente giovanili – frequentando social network, happy hour o altro. Il terzo tipo di ageism si basa sul concetto di successione: l’ostilità nei confronti degli anziani nasce dall’opinione che dovrebbero cedere il passo, lasciare spazio ai giovani, mentre al contrario non mostrano l’intenzione di abbandonare le posizioni e le risorse desiderabili che ancora detengono. In una serie di esperimenti, North e Fiske (2013b) hanno rilevato che l’ageism dei giovani scompare quando le persone anziane assumono comportamenti concordanti con le prescrizioni dello stereotipo. Rispetto agli adulti i giovani sono risultati maggiormente polarizzati nei confronti degli anziani, punendoli di più se violano le prescrizioni e premiandoli di più quando vi si adeguano. 

Un Caso: Il Mondo del Lavoro

Il lavoro è uno dei contesti in cui l’ageism verso gli anziani è più accentuato e in cui è più forte la discriminazione. Inoltre, in molti ambienti lavorativi si è considerati anziani precocemente e gli stereotipi negativi e le relative conseguenze colpiscono persone che sono ancora nel pieno delle loro forze. Due ricerche lo illustrano chiaramente. Nella prima, condotta in Svizzera (Krings, Sczesny & Kluge, 2011), si è visto innanzitutto che rispetto ai più giovani, i cinquantenni sono considerati meno competenti ma più caldi, in linea con lo stereotipo dell’anziano (Studio1); inoltre, in due successivi esperimenti – il primo con studenti di una business school, il secondo con professionisti delle risorse umane – si è rilevato che, dovendo selezionare il candidato per un posto di lavoro, non si tiene conto dell’aspetto positivo di quello stereotipo, il calore. In entrambi gli studi si è mostrata ai partecipanti un’inserzione che offriva un impiego in un’agenzia di viaggio – un lavoro precedentemente individuato come neutro dal punto di vista dell’età. E’ stato poi richiesto di valutare i curricula di due candidati, uno di 29 e uno di 50 anni, molto simili per preparazione e competenza. I ricercatori hanno verificato una costante preferenza per il più giovane indipendentemente dal fatto che il lavoro fosse descritto nell’inserzione come task-oriented – un incarico di tipo amministrativo con scarse relazioni interpersonali – o fosse messa in rilievo l’importanza del calore descrivendo il compito come person-oriented (capacità di lavorare in team, di relazionarsi con altri settori). In sostanza, la parte negativa dello stereotipo ha preso il sopravvento risultando più robusta e annullando i possibili effetti di quella positiva.

In un’altra ricerca, basata su un grosso campione reperito via web (Lindner, Graser & Nosek, 2014), si è constatato ancora una volta che nella scelta tra due candidati per una posizione lavorativa – che in questo caso era descritta in termini che richiamavano lo stereotipo giovanile (innovativa, alla moda) – la persona più anziana era discriminata. Più interessante è che la discriminazione si è verificata sia quando ai valutatori è stata resa saliente la percezione di se stessi come prevenuti sia quando è stata resa saliente la percezione di se stessi come obiettivi, e anche quando è stata ricordata (vs.non ricordata) la norma sociale di equità, ossia la proibizione di discriminare sulla base dell’età, del genere ecc. La presenza della norma di equità, se non ha alterato la scelta, ha però migliorato la valutazione di entrambi i candidati e cambiato la percezione delle persone circa il criterio da loro usato per decidere: è aumentata la loro percezione di essersi basati sull’expertise del candidato ed è diminuita l’importanza percepita dell’età. In altre parole, la norma di equità ha aumentato la motivazione dei valutatori a rispondere in modo imparziale ma non la loro capacità di identificare e correggere il proprio ageism. 

I più anziani sono discriminati, quindi, anche da chi non vuole farlo. Ma cosa c’è di vero negli stereotipi negativi che li riguardano?  Di particolare importanza, a questo proposito, è una metanalisi che ha esaminato in che misura una serie di stereotipi evocati nei confronti dei lavoratori più anziani fossero congruenti con l’evidenza empirica accumulata (Ng & Feldman, 2012). Gli stereotipi considerati erano sei: che i lavoratori più anziani fossero meno motivati, generalmente meno desiderosi di partecipare ad aggiornamenti per lo sviluppo di carriera, più resistenti al cambiamento, meno affidabili, meno sani e meno capaci di gestire il rapporto tra lavoro e famiglia. La metanalisi ha preso in considerazione 418 ricerche – un campione complessivo di oltre duecentomila persone – e ha esaminato le relazioni tra l’età e le 39 variabili con cui è stato operazionalizzato il contenuto dei sei stereotipi. Dall’indagine è risultato che un unico stereotipo è coerente con l’evidenza empirica ed è quello che riguarda la minore volontà dei più anziani di partecipare a corsi di aggiornamento e ad attività tese allo sviluppo di carriera. Nonostante dunque non vi siano evidenze circa la maggior parte degli stereotipi né di un declino della prestazione in ragione dell’età (altre conferme in Brough et al., 2011; Rupp, Vodanovich, & Credé, 2006; Waldman & Avolio, 1986) e nonostante le aziende traggano notevoli vantaggi economici dall’impiegare lavoratori dotati di molta esperienza (Lindner, Graser, & Nosek, 2014), gli stereotipi negativi permangono e sono difficili da superare.  

Conclusioni

Sottili indicatori che segnalano l’appartenenza di una persona al gruppo degli anziani sono sufficienti per attivare stereotipi, pregiudizi e discriminazione inconsapevole, e questo accade anche quando si sollecitano giudizi obiettivi e si richiama la norma di equità. A questi risultati piuttosto sconfortanti, tuttavia, si può far fronte utilizzando per l’ageism quelle strategie che appaiono in grado di ridurre se non eliminare i pregiudizi di qualsiasi tipo: considerare, ad esempio, la categorizzazione per età un criterio irrilevante e quindi non tenerne conto – il cosiddetto daltonismo – o incrociarla con altre categorizzazioni (ad es., genere, etnia), o ancora ricorrere al metodo più classico (Allport, 1954), il contatto, che ancor oggi nelle sue diverse forme – reale, esteso o immaginato (si veda una rassegna in Vezzali & Giovannini, 2012) – è considerato una delle strategie più efficaci. 

Glossario

Ageism. Pregiudizio nei confronti di un determinato gruppo d’età.  
Sottotipo dello stereotipo. Emerge quando le informazioni che riceviamo circa una persona non sono congruenti con lo stereotipo della categoria generale a cui la persona appartiene. 
Stereotipi descrittivi. Credenze semplificate circa le caratteristiche tipiche degli appartenenti a un determinato gruppo.
Stereotipi prescrittivi. Credenze su cosa gli appartenenti a un determinato gruppo debbano fare. Le persone che trasgrediscono a queste prescrizioni rischiano di essere rifiutate o derise.  

Bibliografia

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