La realtà virtuale come strumento di e comprensione delle diverse identità di genere
Gli ambienti digitali hanno conosciuto negli ultimi anni un’evoluzione significativa, che ha trasformato le modalità con cui gli utenti esprimono la propria identità. Se in passato questa si manifestava principalmente attraverso nickname o immagini del profilo, oggi passa sempre più spesso attraverso avatar personalizzabili. L’integrazione di avatar tridimensionali e la possibilità di accedere al metaverso (si veda il glossario) attraverso dispositivi di realtà virtuale (Virtual Reality; VR) ha ridefinito l’interazione digitale: il corpo fisico dell’utente diventa la vera interfaccia tra una persona e lo spazio virtuale e tra gli individui, superando l’uso dei tradizionali strumenti di input come tastiere, mouse o joystick. Il legame con il proprio avatar non è solo funzionale, ma rappresenta qualcosa di profondamente psicologico. Le persone, infatti, non si limitano a “trasferirsi” in uno spazio virtuale: vi portano anche la propria storia e le esperienze socioculturali che le caratterizzano (Murray & Sixsmith, 1999). Questo suggerisce l’esistenza di una connessione intima tra il corpo fisico dell’utente e il suo corpo virtuale, l’avatar. Come osservano Yee e Bailenson (2007, p. 274), “l’avatar non è semplicemente un’uniforme che si indossa, ma è l’intera rappresentazione di noi stessi […], è l’indizio principale della nostra identità negli ambienti online.” In questo scenario, gli ambienti virtuali non rappresentano solo spazi di interazione sociale, ma anche laboratori per esplorare e sperimentare l’identità personale. In particolare, le tecnologie immersive offrono nuove possibilità per riflettere e agire sulla propria identità di genere, consentendo agli utenti di incarnare avatar che si discostano dalle caratteristiche del corpo biologico e aderiscono invece a dimensioni identitarie sentite, ma talvolta non ancora espresse nel mondo reale. Questa possibilità di vivere in prima persona esperienze corporee e relazionali attraverso un corpo digitale diverso dal proprio corpo fisico può favorire la comprensione e la consapevolezza di sé, ma anche contribuire a ridurre stereotipi e pregiudizi nei confronti, ad esempio, di persone transgender e di genere non conforme, facendo strada a nuove prospettive di inclusione sociale e trasformazione culturale.
I meccanismi cognitivi alla base dell’esperienza virtuale e del legame con l’avatar
L’esperienza immersiva offerta dalla realtà virtuale non è il semplice risultato dell’uso di tecnologie avanzate, ma è resa possibile da specifici meccanismi cognitivi che permettono agli individui di percepire il corpo virtuale come parte integrante del proprio Sé. Questo fenomeno, noto come embodiment, costituisce una delle chiavi interpretative fondamentali per comprendere come gli utenti si relazionino psicologicamente al proprio avatar, ovvero alla propria rappresentazione digitale in un ambiente virtuale o di gioco. Gli avatar ricoprono un ruolo significativo nella maggior parte dei mondi virtuali. In questo senso, un avatar rappresenta il sé fisico di un utente in un ambiente digitale accrescendo anche la possibilità di manipolazione e personalizzazione di tale aspetto del sé (Duchenaut et al., 2009; Schroeder, 2012). L’embodiment non si limita a una sensazione soggettiva generica di “essere nel virtuale”, ma si articola in tre componenti fondamentali: il senso di agency, la self-location e il body ownership (per una definizione, si veda il glossario). In realtà virtuale, questi principi vengono estesi al corpo intero, grazie alla possibilità di sincronizzare i movimenti reali dell’utente con quelli dell’avatar, generando un’esperienza altamente realistica e immersiva in cui l’avatar viene percepito non solo come una rappresentazione simbolica, ma come un’estensione corporea del Sé. La forza di questo senso di embodiment non solo aumenta il coinvolgimento emotivo, ma rende l’esperienza virtuale profondamente personale, aprendo spazi per un’esplorazione identitaria che va ben oltre la semplice interazione tecnica con un ambiente digitale.
I meccanismi psicologici legati all’interazione con l’avatar: il Proteus Effect
Oltre a queste componenti percettive e corporee, l’interazione con il proprio avatar attiva processi psicologici più complessi che vanno a modellare comportamenti, atteggiamenti e persino la percezione del proprio Sé. Uno dei fenomeni più rilevanti in questo ambito è il cosiddetto Proteus Effect (Yee & Bailenson, 2007), ovvero la tendenza degli utenti a conformarsi a tratti e stereotipi associati all’aspetto del proprio avatar. In altre parole, non è solo l’utente a influenzare il proprio avatar, ma l’avatar, a sua volta, modella l’utente. Nei loro studi pionieristici, Yee e Bailenson hanno dimostrato che gli individui che incarnano avatar fisicamente attraenti o più alti tendono a comportarsi in modo più assertivo, sicuro e socievole, mentre chi utilizza avatar meno attraenti o di statura inferiore tende a mantenere un comportamento più ritirato o accondiscendente. Questi effetti emergono rapidamente, anche in contesti privi di feedback sociale esplicito, suggerendo che l’apparenza dell’avatar agisce come un indizio identitario che l’utente interiorizza inconsciamente, modificando il proprio comportamento in modo coerente con le aspettative evocate da quella forma corporea. Il Proteus Effect non si limita agli aspetti sociali più superficiali, ma ha dimostrato di avere impatti più profondi sul modo in cui le persone percepiscono sé stesse e gli altri. Il fenomeno ha implicazioni rilevanti in ambito educativo, terapeutico e sociale, ed è stato osservato anche in relazione al genere e all’empatia intergruppi (Fox et al., 2013; Peña et al., 2009). Inoltre, la possibilità di personalizzare l’avatar – di scegliere un corpo che rifletta non solo l’aspetto desiderato, ma anche aspetti identitari profondi – favorisce un maggiore livello di immedesimazione e rende più probabile l’attivazione di questo effetto psicologico (Ratan & Dawson, 2016; Li & Lwin, 2016). Le persone tendono ad interiorizzare tratti associati al proprio avatar, con effetti che possono persistere anche nel mondo reale. Infatti, in alcuni casi, il cambiamento comportamentale non resta confinato al contesto virtuale, ma si estende anche al mondo fisico: studi recenti suggeriscono che gli effetti indotti dal Proteus Effect possono persistere nel tempo, influenzando atteggiamenti e scelte anche dopo la fine dell’esperienza immersiva. Ad esempio, in uno studio di Yee e colleghi (2009), i partecipanti sono stati collocati in un ambiente virtuale immersivo utilizzando avatar più bassi o più alti in base alla condizione. Oltre a rilevare una differenza comportamentale all'interno dell'ambiente virtuale, gli autori hanno riscontrato che i partecipanti a cui sono stati assegnati avatar più alti hanno negoziato in modo più aggressivo nelle successive interazioni faccia a faccia rispetto ai partecipanti a cui sono stati assegnati avatar più bassi. Un altro studio (Peña et al., 2009) ha evidenziato come gli avatar dotati di connotazioni negative possano influenzare la cognizione degli utenti in modo coerente con le associazioni evocate dal loro aspetto. In particolare, i partecipanti che utilizzavano avatar con un mantello nero — colore comunemente associato a caratteristiche stereotipate come “malvagità” e “aggressività” (Frank & Gilovich, 1988) — hanno mostrato intenzioni e atteggiamenti significativamente più aggressivi rispetto a quelli che utilizzavano avatar con un mantello bianco. Inoltre, chi indossava l’avatar nero ha riportato livelli significativamente più bassi di coesione di gruppo rispetto ai partecipanti assegnati all’avatar con mantello bianco. Questi risultati suggeriscono che anche caratteristiche visive apparentemente semplici degli avatar possono influenzare in modo sostanziale i processi cognitivi e sociali degli utenti. Questo fenomeno rende l’avatar un potente mediatore psicologico, capace di fungere da leva per il cambiamento personale e sociale. Alla luce di queste evidenze, è plausibile affermare che la realtà virtuale non sia solo una tecnologia immersiva, ma uno strumento che può generare effetti profondi sulla costruzione del Sé e sulla relazione con gli altri. Proprio per questo, i meccanismi cognitivi e psicologici attivati dall’embodiment e dall’interazione attraverso un avatar aprono scenari di grande interesse per la ricerca e per la costruzione di interventi psico-educativi.
Esplorare il Sé e l’identità di genere attraverso l’avatar
Le possibilità offerte dalla realtà virtuale hanno implicazioni promettenti per lo studio e l’esplorazione del Sé, e in particolare dell’identità di genere. Incarnare un avatar dotato di caratteristiche fisiche diverse dal proprio corpo biologico – in termini di genere, aspetto o modalità di espressione – non rappresenta semplicemente un esercizio di immaginazione, ma un’esperienza sensoriale e percettiva vissuta in prima persona, che coinvolge in modo diretto la rappresentazione corporea e l’autopercezione. Diversi studi hanno mostrato che il nostro sistema cognitivo è in grado di integrare un corpo virtuale come parte del proprio schema corporeo, aggiornando temporaneamente la rappresentazione del Sé in funzione dell’identità dell’avatar (Petkova & Ehrsson, 2008; Roel Lesur et al., 2018). Questo rende la realtà virtuale uno strumento senza precedenti per esplorare la fluidità e la complessità dell’identità di genere, offrendo uno spazio sicuro e immersivo in cui è possibile sperimentare modalità alternative di essere e di sentirsi nel mondo. Per molte persone, in particolare coloro che stanno esplorando un’identità di genere diversa dal genere assegnato alla nascita o stanno attraversando un processo di affermazione di genere, l’avatar può diventare una risorsa psicologicamente significativa. Sperimentare il proprio Sé attraverso un corpo virtuale che riflette in modo più coerente l’identità di genere sentita e l’immagine corporea desiderata potrebbe attenuare il disagio derivante dal disallineamento tra identità di genere e corpo fisico. In questo senso, la realtà virtuale potrebbe rappresentare un importante complemento sia per la ricerca psicologica, sia per i percorsi clinici dedicati al supporto delle persone transgender e gender-diverse (si veda il glossario). Evidenze sulle potenzialità di interventi psicosociali di questo tipo emergono in particolare da studi che hanno analizzato il ruolo dell’avatar all’interno dei videogiochi (Kosciesza, 2023; Van Wert & Howansky, 2024; Morgan et al., 2020; Whitehouse et al., 2023; Griffiths et al., 2016). Queste ricerche, basate prevalentemente su dati qualitativi, offrono diversi spunti interessanti sui benefici che le persone transgender possono trarre dall’utilizzo di avatar digitali. Un primo punto riguarda la possibilità di personalizzare il proprio sé digitale: le persone intervistate riportano che anche il solo processo di personalizzazione era sufficiente ad attivare euforia di genere, senza necessariamente poi utilizzarlo per giocare. Un secondo aspetto è rappresentato dall’opportunità di poter utilizzare l’avatar per esplorare la propria identità di genere: i partecipanti hanno infatti riportato benefici nel poter esplorare versioni ideali di sé stessi, potendo fare chiarezza su come avrebbero voluto apparire in futuro. Tuttavia, la letteratura sull’utilizzo della realtà virtuale in relazione all’identità di genere risulta ancora limitata. Un contributo rilevante è rappresentato dal lavoro di Freeman e colleghi (2022), che hanno intervistato 15 persone non cisgender sull’uso della realtà virtuale sociale, ovvero di ambienti virtuali condivisi accessibili tramite dispositivi VR. I partecipanti hanno riportato che l’esperienza di indossare avatar differenti ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione, nel consolidamento e nella comprensione della propria identità di genere. La possibilità di personalizzare gli avatar, ad esempio attraverso l’abbigliamento o gli accessori, è stata descritta come un elemento chiave nel processo di esplorazione e affermazione delle identità non conformi al genere assegnato alla nascita. Inoltre, l’incarnazione di avatar a corpo intero è stata definita un’esperienza estremamente significativa, in quanto ha permesso di vivere in modo realistico e immersivo un corpo diverso dal proprio. Per alcune persone, si è trattato della prima occasione in cui hanno potuto sentire in maniera vivida e concreta un corpo più allineato alla propria identità, fornendo un senso di conforto, affermazione e validazione profonda.
La realtà virtuale come strumento per la riduzione dei pregiudizi verso le persone transgender
Parallelamente a questa prospettiva individuale di esplorazione del Sé, un secondo filone di ricerca si concentra sull’uso della realtà virtuale come strumento per promuovere la comprensione intergruppi e contrastare stereotipi e pregiudizi. In particolare, la ricerca suggerisce che il processo di embodiment in un avatar appartenente a un gruppo stigmatizzato può contribuire alla riduzione del pregiudizio che inconsciamente si nutre verso quel gruppo. Esperienze di embodiment in corpi con tratti etnici differenti da quelle dell’utente hanno mostrato effetti significativi sulla riduzione dei pregiudizi e sull’aumento dell’empatia verso persone appartenenti ad un gruppo sociale diverso dal proprio (Peck et al., 2013; Maister et al., 2015; Banakou et al., 2016). La realtà virtuale, in questo senso, non si limita a “far vedere il mondo con gli occhi dell’altro”, ma consente letteralmente di sentirsi nell’altro corpo, sperimentando emozioni e interazioni sociali da un punto di vista nuovo, profondamente legato al Sé sociale e individuale. Applicare questa logica al contesto dell’identità di genere apre scenari di ricerca ancora poco esplorati, ma ricchi di potenziale. La possibilità di far vivere a un utente, attraverso un’esperienza immersiva in prima persona, situazioni quotidiane di esclusione, discriminazione o micro- aggressione subite da una persona transgender, può attivare processi empatici altrimenti difficili da stimolare. Un esempio dell’efficacia di interventi di questo tipo è dato dallo studio di Seinfeld e colleghi (2018), i quali hanno mostrato come il processo di embodiment in un avatar di genere femminile e l’esposizione ad un’aggressione da parte di un uomo aumenta la capacità di provare empatia nei confronti della vittima in un gruppo di partecipanti uomini colpevoli di violenza domestica. Inoltre, la realtà virtuale consente di superare il limite della scarsa familiarità con gruppi social diversi dal proprio (si veda anche la voce outgroup del glossario): laddove l’incontro diretto con persone transgender può essere raro o assente, la VR permette di simulare situazioni sociali credibili e di osservare gli effetti psicologici di tali esperienze su atteggiamenti e comportamenti (Tong et al., 2020; Ventura et al., 2021). Questo approccio esperienziale può quindi rappresentare una nuova frontiera per la sensibilizzazione, l’educazione e l’intervento psicosociale, soprattutto in un’epoca in cui l’inclusione delle persone gender-diverse rappresenta una sfida ancora aperta in molti contesti.
Prospettive future di ricerca e intervento
Alla luce di queste premesse, si delineano numerose direzioni di ricerca future che potrebbero contribuire in modo sostanziale sia all’avanzamento teorico in psicologia sociale e clinica, sia alla progettazione di strumenti applicativi innovativi. Una prima linea di indagine potrebbe esplorare l’efficacia dell’embodiment prolungato in avatar congruenti con l’identità di genere sentita nel promuovere il benessere psicologico, ridurre il disagio legato alla disforia di genere o rafforzare l’autoefficacia e la coerenza narrativa del Sé. Parallelamente, studi longitudinali potrebbero valutare gli effetti di esperienze immersive ripetute su aspetti quali la costruzione identitaria, la resilienza o il coping nei percorsi di affermazione di genere. Interventi mirati potrebbero sfruttare la realtà virtuale come strumento di accompagnamento durante la transizione, permettendo alle persone transgender in fasi iniziali del percorso di affermazione di genere di sperimentare l’aspetto fisico che potrebbero avere in futuro, e come tale aspetto si relaziona con la loro presenza sociale. Un secondo ambito promettente riguarda lo sviluppo di ambienti virtuali personalizzati per accompagnare processi di esplorazione identitaria, in particolare per persone non-binarie o gender-questioning (si veda il glossario), offrendo spazi protetti e modulabili per la sperimentazione del Sé. Da un’indagine di Acena e Freeman (2021), emerge una generale sensazione da parte delle persone di sentirsi al sicuro all’interno degli ambienti sociali costruiti in realtà virtuale. Di conseguenza, grazie ad un’esperienza VR, le persone transgender potrebbero sentirsi incoraggiate ad affrontare la loro marginalizzazione e a perseguire cambiamenti nel mondo offline. Per le persone gender-fluid, la malleabilità nella presentazione del sé offerta dalla VR potrebbe significativamente soddisfare i bisogni di espressione del proprio genere tramite un processo flessibile e dinamico. Per le persone non-binarie, questa caratteristica potrebbe essere d’aiuto nella costruzione di una migliore corrispondenza tra il proprio aspetto e l’identità di genere. Dal punto di vista psicosociale, la realtà virtuale può diventare un laboratorio esperienziale per studiare le dinamiche del pregiudizio di genere in modo controllato, testando l’efficacia di diversi tipi di scenari, avatar e contesti sociali sulla modulazione degli atteggiamenti verso le persone transgender. Infine, una prospettiva ancora poco esplorata riguarda l’integrazione della VR in percorsi educativi e formativi rivolti a figure professionali – come insegnanti e operatori sanitari – per favorire il riconoscimento delle micro-aggressioni di genere e stimolare competenze relazionali più consapevoli. Un altro gruppo potenzialmente interessato da applicazioni in questo ambito sono le associazioni che si occupano di percorsi di affermazione di genere, che potrebbero sfruttare la VR per assistere le persone transgender durante step delicati del percorso, come il momento del coming out, permettendo loro di fare pratica in un ambiente sicuro, senza giudizi o conseguenze negative. Anche le persone a cui il coming out è dedicato, quindi familiari, amici, partner, colleghi di lavoro, potrebbero beneficiare di tale tecnologia, avendo la possibilità di sviluppare empatia e comprensione. In questo senso, la VR amplifica la comprensione dell’identità, e diventa uno strumento strategico per trasformare le relazioni sociali e culturali in direzione di una maggiore inclusione.
Glossario
Avatar. Rappresentazione digitale di un utente in un ambiente virtuale o di gioco. Gli avatar possono essere predefiniti, o altamente personalizzabili. Vengono utilizzati per rappresentare l’identità dell’utente all’interno di ambienti online come videogame, social network, e simulazioni di realtà virtuale.
Metaverso. Spazio virtuale condiviso e immersivo, basato su realtà virtuale o aumentata, dove gli utenti possono, tramite il proprio avatar, interagire tra loro, socializzare, lavorare e vivere esperienze digitali in ambienti tridimensionali.
Realtà virtuale. Utilizzo di una tecnologia informatica avanzata per creare un ambiente tridimensionale ed interattivo in cui gli utenti possono interagire tra loro e con l’ambiente circostante e gli oggetti in esso presenti. Permette di avere esperienze realistiche ed immersive.
Senso di agency. Percezione di essere l’agente delle proprie azioni; l’utente avverte che i movimenti eseguiti nell’ambiente virtuale, tramite l’avatar, sono generati da sé e non da un’entità esterna. Questa percezione è favorita dal confronto continuo tra le aspettative motorie (ossia le conseguenze previste delle proprie azioni) e il feedback sensoriale prodotto nel mondo virtuale (David et al., 2008; Gallagher, 2012). Quando tale corrispondenza è precisa e fluida, si rinforza la sensazione di controllo e responsabilità su ciò che accade nel mondo simulato.
Self-location. Percezione di “dove” ci si sente collocati nello spazio. In condizioni normali, la self- location coincide con il corpo fisico, ma nell’ambiente virtuale essa può spostarsi all’interno dell’avatar, soprattutto se la simulazione fornisce una prospettiva visiva in prima persona e segnali coerenti da un punto di vista vestibolare e propriocettivo (Blanke & Metzinger, 2009; Ehrsson, 2007).
Body ownership. Sensazione soggettiva che un corpo (anche se artificiale) ci appartenga. Questo senso di possesso corporeo è reso possibile da un’integrazione multisensoriale efficace, in cui gli stimoli visivi, tattili e motori sono allineati in modo coerente.
Segnali vestibolari. Input sensoriali che il sistema vestibolare, ovvero quello che regola il senso dell’equilibrio e del movimento, riceve durante l’interazione con ambienti virtuali. Aiutano a percepire il movimento, la posizione della testa e l’equilibrio. Un disallineamento tra ciò che si vede nel visore VR e ciò che si percepisce con il sistema vestibolare può causare motion sickness (si veda anche la voce successiva del glossario).
Motion sickness. Sensazione di nausea e disorientamento causata dal conflitto tra i segnali visivi nel visore e i segnali sensoriali del corpo, come i segnali vestibolari e propriocettivi.
Segnali propriocettivi. Informazioni che il corpo riceve dai recettori nei muscoli, articolazioni e pelle riguardo la posizione, il movimento e l’orientamento delle diverse parti del corpo. Questi segnali sono essenziali per il senso di equilibrio e per la percezione della posizione nello spazio.
Outgroup. In generale, qualsiasi gruppo al quale non si appartiene o con il quale non ci si identifica.
Identità di genere. Sensazione psicologica intima, precoce e profonda di appartenenza a un genere, all’altro, a entrambi o nessuno dei due. Sebbene per molti anni l’approccio dominante in psicologia sia stato quello di considerare l’identità di genere come un dato individuale, oggi si riconosce anche l’importante influenza delle strutture sociali, delle aspettative culturali e delle interazioni personali nel suo sviluppo.
Espressione/Identità di genere non conforme. Espressione di genere e/o identità di genere che si discosta dagli stereotipi o dalle norme di genere convenzionali.
Transgender. Termine ombrello utilizzato per descrivere l’intera gamma di persone la cui identità di genere e/o il cui ruolo/espressione di genere si discosta da quanto atteso in relazione al genere assegnato alla nascita.
Gender-diverse. Individui la cui espressione di genere e/o identità di genere differisce dagli stereotipi o dalle norme di genere convenzionali.
Disforia di genere. Disagio che può accompagnare l’incongruenza tra l’identità/espressione di genere di una persona e il genere assegnato alla nascita.
Gender-questioning. Etichetta provvisoria per una persona che sta esplorando la propria identità di genere, ma ha motivo di pensare che potrebbe essere transgender o di genere non binario.