È quasi notte e uno studente, in coda a uno sportello bancario, impiega il tempo di attesa chattando con gli amici al telefono. Mentre sorride, la donna davanti a lui si gira lievemente, lo vede, sistema la borsa sotto al braccio, conclude velocemente l’operazione e si allontana frettolosamente lasciando il ragazzo interdetto. Per comprendere il comportamento della donna manca un’informazione fondamentale: la scena, tratta dalla Serie TV “Dear White People”, vede come protagonista uno studente afroamericano, e ha lo scopo di problematizzare i piccoli episodi di razzismo quotidiano cui è sottoposta una persona di colore. Sebbene sia una serie televisiva americana, possiamo facilmente immaginare che comportamenti simili si verifichino anche nel nostro paese quando, ad esempio, una persona di colore sale su un autobus o entra in un ascensore: il colore della pelle, in alcune situazioni, può essere sufficiente per attivare stereotipi e pregiudizi e guidare il comportamento delle persone, anche in modo non consapevole.
In questo contributo viene discussa la manifestazione del pregiudizio a livello di comportamento non verbale: vengono trattate le origini di stereotipi e pregiudizi, la misurazione del pregiudizio, il legame con il comportamento non verbale, in particolare all’interno della ricerca relativa al pregiudizio etnico.
Identità personale e identità sociale
La donna presentata nella scena, alla vista del ragazzo, reagisce immediatamente proteggendo la borsa e allontanandosi da lui: il suo comportamento è determinato dal fatto che lo riconosce come nero e gli attribuisce cattive intenzioni in base allo stereotipo secondo cui le persone di colore sono pericolose.
Gli stereotipi possono essere definiti come l’insieme di credenze relative alle caratteristiche dei gruppi sociali dei loro membri (Myers, 2013) e sono originati dalla categorizzazione sociale (si veda Glossario). Secondo la teoria dell’identità sociale (Tajfel e Turner, 1979), un altro elemento fondamentale per la formazione di stereotipi e pregiudizi è la distinzione tra identità personale, ovvero la definizione di sé in termini di caratteristiche individuali, e l’identità sociale, ovvero quella parte di sé che si basa sulla consapevolezza di far parte di uno o più gruppi sociali. Il processo di categorizzazione coinvolge anche il Sé: l’ambiente sociale viene distinto in gruppi di appartenenza e gruppi cui non apparteniamo (Turner, Hogg, Oakes, Reicher, & Wetherell, 1987). Poiché le persone, solitamente, cercano di mantenere una buona autostima, al fine di ottenere una buona valutazione del gruppo di appartenenza si confrontano con i gruppi esterni, attribuendogli pregiudizi e stereotipi negativi: il pregiudizio può derivare dal bisogno di mantenere un’identità sociale positiva.
La distinzione tra queste due dimensioni dell’identità è essenziale, perché percepire sé stessi in termini di singoli individui o come membri di un gruppo influenza il modo in cui interagiamo con gli altri: il nostro comportamento può essere guidato da bisogni, credenze e motivazioni individuali, o da bisogni, credenze e motivazioni caratteristiche dei gruppi cui sentiamo di appartenere. In altre parole, il nostro comportamento può collocarsi lungo un continuum alle cui estremità troviamo le interazioni interpersonali, messe in atto in quanto singoli individui dotati di caratteristiche uniche, e le interazioni intergruppi, caratterizzate da comportamenti messi in atto in quanto membri di un gruppo che percepiamo distinto dagli altri (Tajfel, 1981/1985; Turner et al., 1987).
In alcune situazioni l’appartenenza a gruppi differenti e l’identità sociale diventano salienti, così che le interazioni si avvicinano al polo intergruppi e il comportamento delle persone è guidato più dal senso di appartenenza a differenti gruppi sociali che da caratteristiche individuali, e le persone pensano a sé stesse come l’incarnazione di valori, credenze e interessi del gruppo (Turner et al., 1987), e possono attivare, nei confronti dell’altro, aspettative, stereotipi e pregiudizi (Lakin, 2006).
La natura del pregiudizio e le sue dimensioni
Il pregiudizio può essere definito come un “atteggiamento negativo nei confronti di un altro individuo che si fonda unicamente sull’appartenenza di quell’individuo a un particolare gruppo” (Worchel, Cooper, & Goethals, 1988). In particolare, in questo articolo si farà riferimento al pregiudizio etnico, cioè il pregiudizio rivolto a persone che fanno parte di uno specifico gruppo etnico (Van Dijck, 1987).
Un aspetto particolarmente interessante relativo alla natura dei nostri atteggiamenti e pregiudizi è che non sempre ne siamo consapevoli: esiste una dimensione esplicita del pregiudizio, che comprende gli atteggiamenti di cui siamo consapevoli e le valutazioni che formuliamo deliberatamente, e una dimensione implicita, ovvero inconsapevole, che comprende atteggiamenti e opinioni sugli altri di cui non siamo consapevoli. Le due dimensioni del pregiudizio si basano, quindi, su processi di pensiero differenti: mentre il pregiudizio esplicito si basa riflessioni consapevoli e volontarie, il pregiudizio implicito si basa su associazioni spontanee e automatiche tra concetti e sfugge più facilmente al controllo consapevole (Gawronski & Bodenhausen, 2006). Le due dimensioni, inoltre, sono spesso dissociate tra loro (Nosek, 2007): la relazione tra pregiudizi impliciti ed espliciti è complessa e una persona può, ad esempio, dichiarare di credere nell’uguaglianza e di non avere un pregiudizio etnico esplicito nei confronti delle persone di colore e, al contempo, non essere consapevole di avere un pregiudizio etnico implicito. In molte ricerche, infatti, le persone che ritengono di non avere pregiudizi nei confronti delle persone di colore, spesso nascondono sentimenti e credenze negative a livello implicito (Dovidio, Kawakami, & Beach, 2001).
Per rilevare la presenza di pregiudizi occorre utilizzare strumenti adeguati a cogliere entrambe le dimensioni: si può chiedere direttamente alle persone di compilare un questionario indicando cosa pensano di un determinato gruppo sociale (misure esplicite) o inferire la presenza di pregiudizio implicito tramite l’utilizzo di strumenti in grado di cogliere le associazioni spontanee tra parole e concetti (misure implicite). Uno degli strumenti più utilizzati per questo scopo è il test di associazione implicita (Greenwald, McGhee, & Schwartz, 1998), creato con lo scopo di rilevare quelle informazioni contenute nella nostra mente cui, però, non abbiamo accesso e di cui non abbiamo consapevolezza. Il test, per i partecipanti, è un semplice compito di categorizzazione di parole e immagini: per misurare il pregiudizio etnico si può chiedere ai partecipanti di associare volti di persone di colore e bianchi a parole positive e negative. Una persona dotata di pregiudizio implicito sarà più veloce nell’associare le persone di colore a parole negative e i bianchi a parole positive piuttosto che l’inverso.
Non è necessario che le persone siano consapevoli dei propri atteggiamenti e pregiudizi perché questi abbiano un’influenza sul loro comportamento: alcuni autori hanno ipotizzato che gli atteggiamenti espliciti influenzino le forme controllate e deliberate di comportamento, mentre gli atteggiamenti impliciti influenzerebbero forme spontanee del comportamento, su cui abbiamo poco controllo e che si manifestano senza consapevolezza o senza richiedere una forma di riflessione, come ad esempio il comportamento non verbale (Chen & Bargh 1997; Dovidio, Kawakami, Johnson, Johnson, & Howard, 1997; Dovidio, Kawakami, & Gaertner, 2002; Wilson, Lindsey, & Schooler, 2000).
La comunicazione non verbale nelle interazioni
intergruppi
Come abbiamo visto, all’interno delle interazioni intergruppi il comportamento delle persone viene guidato dal senso di appartenenza a determinati gruppi e ciò può attivare diverse forme di pregiudizio, che possono manifestarsi, anche inconsapevolmente, a livello di comportamento non verbale.
Lo studio della comunicazione non verbale all’interno delle relazioni intergruppi sta ricevendo, recentemente, sempre più attenzioni perché buona parte del processo di comunicazione è guidato da indizi non verbali (DePaulo & Friedman, 1998). Con l’espressione “comunicazione non verbale” si può intendere “tutto ciò che non è parola”, cioè quegli aspetti del comportamento umano che non sono parte del linguaggio verbale. La comunicazione non verbale può essere definita come la trasmissione di contenuti, la costruzione e condivisione di significati che avviene a prescindere dall’uso delle parole (Bonaiuto & Maricchiolo, 2009).
Come si misura?
Storicamente la misura del comportamento non verbale è stata effettuata tramite l’utilizzo di registrazioni video delle interazioni, codificate a posteriori da parte di giudici, ovvero persone esperte di una particolare tematica: dopo aver registrato l’interazione, i giudici, lavorando in modo indipendente l’uno dall’altro, osservano la registrazione e identificano i segnali non verbali. Viene infine valutato il grado di accordo tra le valutazioni dei giudici. Nonostante i giudici siano esperti che lavorano indipendentemente l’uno dall’altro per giungere a una valutazione condivisa dell’interazione osservata, è facilmente intuibile che questa procedura presenta alcuni limiti: richiede un lungo lavoro di formazione dei giudici, l’osservazione accurata delle interazioni e, infine, le valutazioni ottenute sono comunque soggettive.
Nelle ricerche più recenti, tuttavia, si sta diffondendo l’uso di strumenti tecnologici che consentono di registrare in maniera automatica le interazioni e di estrarre gli indici di comportamento non verbale tramite l’utilizzo di algoritmi. Uno di questi strumenti è il Kinect di Microsoft, un sensore che sfrutta la tecnologia a infrarossi per registrare la terza dimensione (cioè la profondità) ricostruendo i movimenti delle persone nello spazio: per ogni persona coinvolta viene registrata la posizione tridimensionale di 25 giunture del corpo (distribuite tra capo, spalle, braccia, bacino, gambe, mani e piedi) in maniera automatica e continua (Zhang, 2012). Successivamente, tramite l’utilizzo di algoritmi, è possibile ottenere un ampio numero di misure oggettive dei segnali non verbali.
Comportamento non verbale e pregiudizio
Alcune forme di comportamento non verbale sembrano essere particolarmente legate alla manifestazione di atteggiamenti e pregiudizi, tra queste troviamo: la gestione dello spazio fisico, il comportamento cinesico, lo sguardo, cambiamenti nel tono di voce ed errori nel discorso.
Quando le persone interagiscono tra loro stabiliscono una distanza fisica, la possibilità di avvicinarsi, allontanarsi e di entrare in contatto con l’altro. La distanza interpersonale (Hall, 1968, si veda Glossario), ad esempio, fornisce informazioni relative al rapporto tra gli interlocutori e alle loro intenzioni: avvicinarsi all’altro indica l’intenzione a interagire, mentre allontanarsi indica la volontà di interrompere l’interazione. Secondo Mehrabian (1968), inoltre, la vicinanza fisica indica la distanza che poniamo tra noi e ciò che ci piace o meno. In uno studio recente, ad esempio, i ricercatori hanno chiesto a 32 studenti universitari di compilare un questionario per rilevare il loro pregiudizio esplicito e di svolgere un test di associazione implicita per rilevare il pregiudizio implicito. Successivamente, ad ogni partecipante è stato chiesto di svolgere due brevi conversazioni, una delle quali con una persona di colore. Le conversazioni sono state registrate tramite il Kinect di Microsoft. I risultati mostrano che i partecipanti dotati di un più alto livello di pregiudizio implicito tendevano a mantenere una distanza interpersonale maggiore con l’interlocutore quando dovevano dialogare con la persona di colore: il pregiudizio implicito, e non quello esplicito, si manifestava tramite comportamento non verbale (Palazzi et al., 2016).
Il pregiudizio implicito può, però, manifestarsi attraverso varie forme di comportamento non verbale: in una ricerca, ad esempio, i partecipanti bianchi con alto pregiudizio implicito evitavano il contatto visivo quando dovevano dialogare con persone di colore (Dovidio et al., 1997), mentre, in un’altra, i partecipanti dotati di pregiudizio commettevano maggiori errori del discorso durante le conversazioni con persone di colore (McConnell & Leibold, 2001).
I gesti delle mani, del corpo e del capo possono veicolare diversi significati e vengono messi in atto in modo inconsapevole durante le interazioni. Ad esempio, la posizione chiusa di braccia e/o gambe rappresenta una chiusura o protezione del corpo di fronte all’interazione, i movimenti ripetitivi possono indicare il desiderio di allontanarsi da essa, cambiamenti nella postura, come ad esempio il sistemarsi su una sedia, possono indicare irrequietezza (Ekman & Friesen, 1969). Secondo alcuni studiosi, inoltre, questi gesti possono rivelare stati d’animo come ansia e disagio (Knapp & Hall, 2009; Mastronardi, 1998; Meadors & Murrey, 2014). L’ansia intergruppi, in particolare, è un particolare tipo di ansia che le persone possono sperimentare quando si aspettano di interagire o quando entrano in interazione con persone appartenenti ad altri gruppi sociali (Stephan, 2014). Questo avviene perché le persone non solo possono avere pregiudizi e stereotipi nei confronti delle persone appartenenti ad altri gruppi etnici, ma hanno anche credenze relative a come gli altri le percepiscono (Shelton, Richeson, & Salvatore, 2005; Vorauer & Turpie, 2004). Ad esempio, quando i bianchi si aspettano di interagire con persone di colore, spesso esprimono la preoccupazione di manifestare pregiudizio (Vorauer, Main, & O’Connell, 1998) e, di conseguenza, possono mostrare segnali di ansia (Dovidio & Gaertner, 2004; Richeson & Shelton, 2003; Richeson & Trawalter, 2005; Shelton, 2003). L’ansia intergruppi può manifestarsi tramite il comportamento non verbale per mezzo di cambiamenti nel tono di voce, evitamento dello sguardo e disagio generale. Alcune ricerche, ad esempio, mostrano che durante le interazioni interetniche i partecipanti bianchi manifestavano segnali di stress a livello non verbale: postura chiusa, evitamento dello sguardo, aumento della distanza fisica (Trawalter, Adam, Chase-Lansdale, & Richeson, 2012; Trawalter & Richeson, 2008).
Quando atteggiamenti e comportamenti non
verbali divergono
Gli studi sul comportamento non verbale nelle relazioni interetniche mostrano che, spesso, nonostante le persone ritengano di provare sentimenti positivi nei confronti di chi appartiene a etnie diverse dalla propria (ritengono, cioè, di non avere pregiudizi espliciti), manifestano segnali negativi a livello di comportamento non verbale (Hebl & Dovidio, 2005). Le incoerenze tra manifestazioni verbali e non verbali del pregiudizio si osservano tipicamente nei bianchi all’interno di interazioni interetniche (Crosby, Bromley, & Saxe, 1980).
Le ragioni di queste incoerenze possono essere diverse. Le persone, come abbiamo visto, possono essere preoccupate dalla paura di mostrare pregiudizio (Gaertner & Dovidio, 1986) e potrebbero impegnarsi nel gestire la conversazione a livello verbale, mentre il comportamento non verbale sfugge più facilmente al controllo consapevole: ciò favorisce l’espressione di comportamenti non verbali spontanei (Patterson, 1995). Un’altra causa delle incoerenze tra comportamento verbale e non verbale è l’esistenza delle due dimensioni del pregiudizio: poiché possono non essere coerenti tra loro, influenzano il comportamento in modi diversi e possono veicolare messaggi contrastanti. In generale, gli studi relativi alle relazioni interetniche mostrano che i partecipanti bianchi tendono a focalizzarsi sugli aspetti espliciti dei propri atteggiamenti e a controllare gli aspetti verbali della comunicazione, manifestando segnali negativi attraverso il comportamento non verbale. I partecipanti, inoltre, possono mostrare bassi livelli di pregiudizio esplicito e, al contempo, avere pregiudizi di cui non sono consapevoli (Dovidio et al., 2001; Dovidio et al., 2002). Di conseguenza, spesso, pensano di mostrare atteggiamenti positivi mentre i partner di interazione sono in grado di percepire le incoerenze e possono usare gli indizi non verbali per inferire la presenza di pregiudizio, questo perché quando non c’è coerenza tra comportamento verbale e non verbale le persone usano il comportamento non verbale per interpretare il comportamento altrui (Mehrabian, 1968, 1972).
Il comportamento non verbale può, quindi, essere particolarmente importante nelle relazioni intergruppi perché influisce sulla possibilità di costruire relazioni positive, specialmente tra gruppi etnici differenti: la dissociazione tra atteggiamenti espliciti e impliciti influenza il comportamento, portando le persone a creare messaggi contraddittori che minano l’efficacia della comunicazione e la fiducia tra le parti (Dovidio et al., 2002). Ciò è particolarmente rilevante perché ha ripercussioni sulla vita quotidiana: ad esempio è stato dimostrato come i medici possano mostrare atteggiamenti meno positivi quando interagiscono con pazienti di colore (Johnson, Roter, Powe, & Cooper, 2004), mentre gli insegnanti possono mostrare maggiori apprezzamenti verso studenti bianchi rispetto a studenti di colore (Feldman & Orchowsky, 1979). Risulta evidente, quindi, l’importanza di studiare e conoscere la relazione tra comportamento non verbale e pregiudizio nelle relazioni intergruppi, al fine di poter favorire una comunicazione efficace tra le parti e la costruzione di relazioni positive.
Glossario
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