Keywords: autostereotipizzazione; status sociale; stereotipi; discriminazione
Per capire cos’è l’autostereotipizzazione proviamo a immaginare Andrea, un ragazzo di 28 anni, sposato con due figli, appassionato di modellismo e con pochi amici. Nella vita domestica si definirebbe un ragazzo introverso, dolce e pignolo. Andrea, però, è anche un grande tifoso della Juventus e qualche volta va allo stadio a fare il tifo, bardandosi con maglietta e sciarpa dei colori juventini e ritrovandosi ad incitare animatamente la squadra assieme ad altre migliaia di tifosi. Possiamo dire che lì allo stadio Andrea si sta conformando allo stereotipo del tifoso e, allo stesso tempo, le sue caratteristiche di personalità non sembrano essere più rilevanti. Così, ad esempio, Andrea canterà l’inno della squadra a squarciagola, anche se nella vita di tutti i giorni si definirebbe introverso. Con parole più tecniche, Andrea si sta autostereotipizzando, cioè sta facendo proprio lo stereotipo del gruppo dei tifosi della Juventus di cui si sente parte, con cui cioè si è identificato (esempio tratto da van Veelen, Otten, Cadinu, & Hansen, 2014).
La teoria dell’Auto-Categorizzazione (Self-Categorization Theory, SCT; Turner, Hogg, Oakes, Reicher, & Wetherell, 1987), infatti, propone che il gruppo e l’individuo siano intrinsecamente connessi e che il sé possa essere categorizzato a diversi gradi di astrazione, lungo un continuum che passa dal livello personale “Io” al livello sociale “Noi”, fino al livello del sé in quanto essere umano. Questi livelli definiscono l’identità personale, ovvero l’insieme delle caratteristiche che rendono unica la persona, e le identità sociali, ovvero l’insieme delle caratteristiche prototipiche dei vari ingroup, intesi come i vari gruppi sociali di cui l’individuo si sente parte e con i quali si identifica (“maschio”, “tifoso della Juventus”, “padre”, ecc.). Quando ci troviamo di fronte ad un contesto in cui è saliente una delle nostre identità sociali, ad esempio quando Andrea è allo stadio e la sua identità di tifoso è attivata, il sé personale passa in secondo piano ed avviene il processo di depersonalizzazione. In altre parole, tendiamo a considerarci come membri intercambiabili del nostro gruppo sociale e non più come personalità uniche che si differenziano dagli altri. Come conseguenza del processo di depersonalizzazione, ogni membro del gruppo tenderà a definirsi e a comportarsi in accordo con le caratteristiche prototipiche dell’ingroup (Andrea si veste e si comporta come vuole lo stereotipo). Questa conformità alle norme del gruppo di appartenenza è definita autostereotipizzazione.
Partendo da questo meccanismo, nel presente contributo volgeremo l’attenzione al ruolo che riveste lo status sociale dell’individuo nel modulare il processo di depersonalizzazione e conseguente autostereotipizzazione. In particolare, prenderemo in considerazione i membri dei gruppi considerati a basso status sociale, come le donne, i meridionali e gli omosessuali ed indagheremo come questo fattore possa influenzare il loro modo di rappresentare sé stessi.
Status sociale diverso, diverse rappresentazioni cognitive
Fin qui abbiamo detto che secondo la teoria dell’auto-categorizzazione (Turner et al., 1987), l’ingroup rappresenta una risorsa per dare forma al proprio sé (ad es. “Io, Andrea, sono come il mio gruppo di tifosi della Juventus”) quando la categoria di appartenenza viene resa saliente (Andrea allo stadio). Al contrario, altre teorie (Social projection, per una rassegna si veda Krueger 2007; Self-anchoring, Cadinu & Rothbart, 1996), propongono una strategia cognitiva più egocentrica e sostengono che la similitudine tra il sé e l’ingroup è il frutto di una generalizzazione delle caratteristiche del sé all’ingroup. Questo processo, che si avvale del sé personale come “ancora” per definire l’ingroup, è più comune nel caso di gruppi minimi (si veda glossario) o gruppi di recente formazione, come può essere un nuovo gruppo di lavoro. Proviamo, ad esempio, a pensare a Luca, un designer appena assunto in una nuova azienda, che si ritiene una persona molto creativa. Essendo appena arrivato, è molto probabile che ancora non conosca e non abbia fatte proprie le norme ed i valori della nuova azienda. Su che base, quindi, Luca dovrebbe creare un legame con la nuova azienda, visto che non può conformarsi ad un prototipo? Secondo il modello proposto da Cadinu e Rothbart (1996), Luca si identificherà con la nuova azienda generalizzando le caratteristiche del suo sé creativo ad essa: “La mia azienda è creativa come me.” Il tratto comune a questi modelli contrapposti è il fatto che in tutti i meccanismi descritti vi è una sovrapposizione tra la rappresentazione del sé personale e la rappresentazione dell’ingroup. La differenza sta nel meccanismo cognitivo che spiega questa sovrapposizione.
In uno studio recente (Latrofa, Vaes, Cadinu, & Carnaghi, 2010) gli autori hanno dimostrato come la chiave per spiegare questi due meccanismi contrapposti risieda nel diverso status sociale del gruppo di appartenenza. In particolare, confrontando due gruppi con differente status, come le donne (basso status) e gli uomini (alto status), gli autori hanno trovato che solo le donne si autostereotipizzano e che il processo cognitivo sottostante, in linea con la teoria dell’auto-categorizzazione, può essere spiegato in termini di deduzione del sé dall’ingroup (“Io sono come il mio gruppo”; “Io sono come tutte le donne”). Al contrario, gli uomini non tendono ad autostereotipizzarsi e, coerentemente con un meccanismo cognitivo di induzione dell’ingroup dal sé, tendono a proiettare all’ingroup le caratteristiche del proprio sé (“Il mio gruppo è come me”; “Gli uomini sono come me”), in linea con una strategia egocentrica. Approfondendo ulteriormente tale meccanismo, dai risultati ottenuti è emerso che le donne tendono a descrivere se stesse utilizzando caratteristiche legate allo stereotipo del proprio gruppo (autostereotipizzazione) e sorprendentemente si attribuiscono sia attributi positivi (ad es., l’essere sensibili) che negativi (ad es., l’essere fragili). Quest’ultimo dato è interessante perché dimostra che, differentemente da quanto ipotizzato dalla Teoria dell’Identità Sociale (Tajfel & Turner, 1979) e dalla Teoria dell’Auto-Categorizzazione (Turner et al., 1987), i membri di un gruppo a basso status si autostereotipizzano non solo per il loro bisogno di mantenere un’immagine del sé positiva (Self-enhancement; per una definizione, si veda glossario), ma perché probabilmente ciò permette loro di affermare la propria identità sociale in tutte le sue sfaccettature, anche attraverso gli stereotipi (si veda glossario) negativi.
Perché autostereotipizzarsi
L’autostereotipizzazione sarebbe dunque un processo che interessa specificatamente i membri di gruppi sociali stigmatizzati o a basso status, rispetto ai membri di gruppi ad alto status che, invece, sembrano utilizzare una strategia cognitiva più egocentrica. Ma perché proprio i membri di gruppi a basso status manifestano questa tendenza ad autostereotipizzarsi rispetto a quelli ad alto status?
Partendo da questa domanda, Latrofa, Vaes e Cadinu (2012) hanno ipotizzato che gli individui potrebbero percepire l’appartenenza ad un gruppo di basso status come una minaccia; tale minaccia, a sua volta, potrebbe essere la ragione che li spinge a proteggere la propria identità aumentando la somiglianza con il gruppo, autostereotipizzandosi così maggiormente rispetto ai membri dei gruppi ad alto status. Per testare questa ipotesi, gli autori hanno introdotto una manipolazione sperimentale in cui veniva alternativamente minacciata o protetta l’identità di gruppo di un campione di donne (basso status) e uomini (alto status). A metà dei partecipanti veniva detto che la personalità maschile è caratterizzata da un migliore equilibrio psicologico e migliori abilità sociali, qualità che aumentano la possibilità di ottenere successo nella vita (condizione di Minaccia per le donne/Favorevole per gli uomini). All’altra metà dei partecipanti venivano date le stesse informazioni, ma questa volta attribuite alla personalità femminile (condizione Favorevole per le donne/Minaccia per gli uomini). In accordo con il processo di autostereotipizzazione, dai risultati è emerso che solo le donne (gruppo a basso status) hanno reagito alla minaccia aumentando la loro somiglianza con l’ingroup. Viceversa, gli uomini non si sono autostereotipizzati, nemmeno quando è stata minacciata la loro identità di genere. In linea con le ipotesi, i risultati dimostrano che appartenere ad un gruppo ad alto status, come quello maschile, non è percepito come una minaccia alla propria identità. Al contrario, i membri di gruppi discriminati percepiscono il proprio status inferiore come una minaccia e sono spinti a proteggere la propria identità aumentando, paradossalmente, la somiglianza con il gruppo, quindi autostereotipizzandosi. Anche se sembra contro intuitivo, gli autori concludono che il meccanismo di autostereotipizzazione è una delle strategie centrali per ridurre lo stress che può derivare dall’ appartenenza ad un gruppo discriminato.
Questi risultati sono perfettamente allineati con quelli di un altro studio (Latrofa, Vaes, Pastore, & Cadinu, 2009), in cui si dimostra che l’autostereotipizzazione è una risorsa fondamentale per i membri di gruppi stigmatizzati. In quest’ultimo caso, i ricercatori sono partiti dal modello di rifiuto-identificazione (Rejection-Identification Model, Branscombe, Schmitt, & Harvey, 1999), secondo il quale la percezione di discriminazione avrebbe degli effetti negativi sulla percezione di benessere fisico e psicologico da parte dei membri del gruppo stigmatizzato. Paradossalmente, questo modello evidenzia come all’aumentare della percezione di discriminazione aumenti l’identificazione con il gruppo e come quest’ultima vada a compensare gli effetti negativi della prima. In linea con questo modello Latrofa e colleghi (2009), selezionando un campione di meridionali (gruppo di basso status e tuttora oggetto di discriminazione in Italia) hanno trovato che effettivamente la percezione di discriminazione abbassava la loro percezione di benessere psicologico. In maniera più interessante, estendendo il modello di Branscombe e colleghi, dai risultati è emerso che, quando i partecipanti si sentivano discriminati (“Mi sono personalmente sentito vittima di pregiudizio perché sono un meridionale”), il sentirsi parte del gruppo (identificazione) aveva un effetto positivo nel ristabilire il benessere psicologico, ma solo quando era accompagnato anche da autostereotipizzazione. Questi risultati hanno portato gli autori a concludere che l’autostereotipizzazione consentirebbe ai membri di gruppi stigmatizzati di riaffermare la propria identità collettiva in termini di tratti stereotipici dell’ingroup, indipendentemente dalla loro valenza. In altre parole, perché autostereotipizzarsi? Perché più mi sento uguale agli altri membri dell’ingroup anche negli aspetti negativi, meglio mi sento. Perché allora questo processo ristabilisce il benessere psicologico? Perché sento di non essere solo e che l’unione con gli altri membri del gruppo mi dà forza.
È un meccanismo automatico?
Le ricerche presentate finora hanno indagato vari aspetti dell’autostereotipizzazione utilizzando strumenti espliciti, come i questionari, che rilevano gli atteggiamenti consapevoli e controllati degli individui. L’approccio della psicologia sociale noto come cognizione sociale ha però evidenziato che gli atteggiamenti si manifestano anche in modo implicito, cioè in modo automatico e inconsapevole. A questo proposito, Cadinu e Galdi (2012) hanno misurato non solo gli aspetti espliciti, ma anche gli aspetti impliciti dell’autostereotipizzazione, mettendo a confronto un campione di donne (basso status) con un altro composto invece da uomini (alto status). In particolare, le ricercatrici hanno ipotizzato che, rispetto ai membri di un gruppo ad alto status (maschi), solo per i membri di un gruppo a basso status (donne) l’appartenenza all’ingroup sarà altamente accessibile (High Accessibility of Low Status Ingroup Membership; HALSIM). Detto in altre parole, l’identità di genere sarebbe molto più accessibile per le donne rispetto a quanto accade per gli uomini. Inoltre, le autrici hanno ipotizzato che proprio questa maggiore accessibilità dell’identità sociale di genere condurrebbe le donne ad autostereotipizzarsi maggiormente, rispetto a quanto ci si dovrebbe aspettare dalla controparte ad alto status (gli uomini).
L’accessibilità cognitiva (si veda glossario) dell’identità di genere è stata misurata attraverso un Implicit Association Test (IAT; si veda glossario) di auto-categorizzazione (Gender Self-Categorization IAT), che ha consentito di rilevare la forza delle associazioni automatiche tra il sé e l’ingroup di genere. Un secondo IAT è andato a rilevare la forza delle associazioni tra il sé e gli attributi stereotipici del proprio ingroup per determinare il grado di autostereotipizzazione automatica (Gender Self-stereotyping IAT). In accordo con il modello proposto e le ipotesi avanzate, le ricercatrici hanno trovato che, rispetto ai gruppi ad alto status, per i membri di un gruppo a basso status l’identità sociale è più saliente ed accessibile a livello implicito. Infatti, le donne hanno mostrato una maggiore facilità ad auto-categorizzarsi come donne, rispetto a quanto gli uomini si categorizzassero in quanto uomini. Inoltre, in linea con i precedenti studi presentati (Latrofa et al., 2010), la ricerca ha dimostrato che le donne si autostereotipizzavano maggiormente rispetto agli uomini, anche a livello implicito, associando a sé stesse in modo automatico gli attributi stereotipici del genere femminile. In generale, quindi, sembra che il definirsi automaticamente membri di un gruppo a basso status (auto-categorizzazione) conduca anche ad autostereotipizzarsi, probabilmente senza che vi sia consapevolezza da parte dell’individuo stigmatizzato. È allora possibile che questa maggiore accessibilità alla propria identità di gruppo favorisca, ad esempio, una maggiore vigilanza (anche non consapevole) verso gli indizi ambientali di discriminazione?
Una ricerca recentissima (Cadinu, Galdi, & Maass, 2013) è proprio partita da questa domanda, muovendo dall’assunto che solo i membri di un gruppo a basso status (in questo caso un gruppo di omosessuali), ma non la controparte ad alto status (eterosessuali), rispondano agli indizi ambientali modificando la propria auto-categorizzazione e auto-stereotipizzazione. Utilizzando misure implicite, le ricercatrici hanno dimostrato, infatti, che solo gli omosessuali e non gli eterosessuali si categorizzavano automaticamente (IAT di auto-categorizzazione) e associavano a se stessi parole legate allo stereotipo che vuole gli omosessuali maggiormente sensibili (IAT di autostereotipizzazione); questo avveniva soprattutto quando l’orientamento sessuale era reso saliente da semplici indizi anche sottili, come il trovarsi in una libreria gay oppure vedere un cartellone di un film di amore omosessuale. Inoltre, lo studio ha dimostrato che a livello esplicito gli omosessuali si autodescrivevano con tratti gay e si sentivano maggiormente portati per lavori tipicamente omosessuali, quando erano stati esposti a questi indizi ambientali. Concludendo, quando degli indizi ambientali attivavano una certa categoria sociale, solo i membri a basso status si autocategorizzavano come membri dell’ingroup. Non solo, perché al variare degli indizi solo i membri a basso status variavano “camaleonticamente” la rappresentazione di se stessi, mostrando pertanto un maggior livello di autostereotipizzazione.
Conclusioni
Riassumendo, il processo di autostereotipizzazione sembra essere una strategia cognitiva messa in atto unicamente da quei gruppi considerati a basso status sociale quando viene attivata la loro identità di gruppo e, assieme ad essa, viene resa saliente la loro appartenenza ad un gruppo discriminato. Per proteggere e riaffermare la propria identità sociale e per ridurre lo stress dovuto alla percezione di discriminazione, allora, l’attribuire a se stessi gli stereotipi del proprio gruppo, indipendentemente dalla loro valenza, sembra essere una strategia centrale dei membri di gruppi a basso status. Abbiamo inoltre visto come l’identità sociale dei gruppi discriminati sia molto più accessibile a livello implicito di quanto non lo sia per i gruppi ad alto status e che questa accessibilità predisponga tali individui ad autostereotipizzarsi anche inconsapevolmente. Inoltre, gli individui stigmatizzati sembrano rispondere in modo molto più plastico a quegli indizi presenti nel contesto ambientale che possono attivare la loro identità di gruppo. Nel complesso, queste ricerche suggeriscono che la tendenza ad autocategorizzarsi e ad autostereotipizzarsi, anche a livello automatico, deve essere vista come una strategia positiva di sopravvivenza che i membri dei gruppi a basso status utilizzano per difendersi dalle conseguenze negative innescate dal pregiudizio, secondo la logica “Divisi crolliamo, ma l’unione fa la forza” (Latrofa et al., 2009, p.102).
Glossario
Accessibilità cognitiva. Facilità con cui un costrutto immagazzinato (ad es., l’appartenenza al gruppo sociale delle donne) si presenta alla nostra mente.
Categorizzazione sociale. Meccanismo semplificativo della realtà con cui le persone classificano gli individui utilizzando categorie sociali di appartenenza, basate su fattori di vario tipo (ad es., età, genere sessuale, posizione sociale o lavorativa, religione, appartenenza etnica), tendendo a massimizzare la somiglianza tra i soggetti all'interno della stessa categoria e a massimizzare, nel contempo, le differenze con individui appartenenti a categorie contrapposte.
Gruppi minimi. Gruppi artificiali costituiti dallo sperimentatore in base a criteri casuali.
Implicit Association Test (IAT). Strumento di misura della forza associativa tra concetti e attributi sviluppato da Greenwald, McGhee e Schwartz (1998). A partire dalla rilevazione dei tempi di risposta dei partecipanti in una serie di cinque compiti di categorizzazione che vengono svolti al computer, viene calcolato un indice IAT che misura la differenza nella forza di associazione tra due concetti o categorie (ad es., Io/Altri) e uno stesso attributo bipolare (ad es., il genere: maschio/femmina). Ad esempio, nel caso del Gender Self-Categorization IAT utilizzato da Cadinu e Galdi (2012), le partecipanti hanno associato se stesse più velocemente a parole legate alla categoria femminile (ad es., “madre”, “femmina”, “figlia”), rispetto alla velocità con cui i maschi hanno associato se stessi a parole inerenti alla categoria maschile (ad es., “padre”, “maschio”, “figlio”), dimostrando così una maggiore accessibilità cognitiva dell’appartenenza al gruppo femminile. Allo stesso modo nel Gender Self-stereotyping IAT è stato misurato il grado di associazione tra le categorie Io/altri e gli attributi stereotipici femminili (ad es., “sensibile”, “romantica”, “sentimentale”) e maschili (ad es., “forte”, “potente”, “indipendente”).
Self-enhancement o Auto-accrescimento. È la motivazione che porta le persone a preferire informazioni positive anziché negative riguardo a se stessi al fine di mantenere o aumentare la propria autostima.
Stereotipi sociali. Principale conseguenza negativa del processo di categorizzazione, sono delle credenze semplificate generalizzate a tutti i membri di una categoria (ad es., “Gli Italiani sono passionali e inaffidabili”).
Bibliografia
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