Oggi di genitorialità omosessuale si parla tantissimo, ma se ne parla molto spesso attraverso prospettive discorsive inquinate in partenza, da cui si fanno derivare concezioni che rinforzano o confermano visioni distorte o preconcette. E’ da più di quarant’anni oramai che la ricerca scientifica sulle famiglie omosessuali ha evidenziato che la specifica configurazione familiare (omosessuale o eterosessuale) non ha alcuna influenza sia sulla qualità dei processi evolutivi dei bambini e delle bambine, sia sulle modalità attraverso cui vengono esercitate le funzioni genitoriali (per una rassegna della letteratura Cfr: Taurino, 2016; Spaccatini, Taurino & Pacilli, 2014; Suitner & Pacilli, 2016; Ferrari, 2011, 2015; Lingiardi, 2007). Le diverse indagini condotte hanno, in altri termini, rilevato che le famiglie omosessuali non si configurano come contesti disadattivi per lo sviluppo infantile dal punto di vista cognitivo-emotivo, socio-relazionale e comportamentale. Nonostante tali risultati, tuttavia continua ad essere molto diffusa l’idea che l’unico modello di famiglia sia quello costituito da un uomo e da una donna e che la genitorialità possa essere espressa e realizzata in modo adeguato solo ed esclusivamente all’interno di una coniugalità eterosessuale. Motivazioni o spiegazioni tese ad avallare una sorta di inammissibilità della famiglia omosessuale (dal punto di vista sociale, culturale, politico, etc.) si traducono di fatto nella negazione di statuto di esistenza ad una struttura familiare che non si configura come uno scenario futuribile (ossia una dimensione con la quale prima o poi ci si potrà confrontare), ma come una realtà già presente nella nostra società. Nelle ultime generazioni, in Italia si è verificato un significativo incremento del numero di lesbiche e gay che hanno pianificato e concretizzato percorsi di transizione alla genitorialità all'interno di una coniugalità omosessuale, come dimostrato dall’importante presenza di associazioni molte attive sul territorio nazionale, quali "Famiglie Arcobaleno-Associazione Genitori Omosessuali" e “Rete Genitori Rainbow- Genitori LGBT con figli/e da relazioni etero”. I/le bambini/e che nel nostro Stato vivono in nuclei omosessuali sono più di centomila (come è emerso dalla ricerca “Modi-di” condotta da Arcigay nel 2005 con il patrocinio dell’Istituto Superiore di Sanità). Questo dato di certo non esaurisce gli elementi di conoscenza quantitativa reale del fenomeno, non solo per il fatto che molte coppie omosessuali vivono “clandestinamente” le proprie relazioni e non fanno coming out, ma anche perché il dato stesso è vecchio e superato, risalendo oramai a più di dieci anni fa.
Nel rapporto tra esistenza di fatto e riconoscimento formale, la famiglia omosessuale si connota ancora come un ossimoro, ossia una realtà esistente ma, contemporaneamente, inesistente dal punto di visto legale-giuridico. Basti pensare a quanto accaduto durante la discussione parlamentare sul d.d.l. Cirinnà che ha portato allo stralcio della stepchild adoption dalla legge n. 76/2016 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze); o all’opposizione nei confronti di un’estensione della possibilità di adozione anche alle coppie omosessuali, con un conseguente annientamento dei diritti soprattutto dei bambini e delle bambine che vivono e crescono in nuclei omogenitoriali, ai quali viene reso più complesso su molteplici livelli (se non proprio disconosciuto), il senso di appartenenza alle proprie radici relazionali.
E’ ancora forte la tendenza a rimarcare una concezione di omogenitorialità vista come disordine, disfunzionalità, criterio di disorganizzazione sociale, minaccia e attentato ai valori costitutivi di una supposta antropologia umana. Vengono riprodotti sistemi comunicativi che imbrigliano la genitorialità omosessuale in paradigmi interpretativi di tipo naturalistico e deterministico, sulla base di quali ci si contrappone fortemente all’integrazione di ciò che non apparirebbe fondato su un’idea di unicità, naturalità e normalità del modello familiare e genitoriale di tipo tradizionale ed esclusivamente eterosessuale. Non passa giorno in cui in cui slogan ideologicamente connotatati non ricordino o ribadiscano che “la famiglia è altra cosa” o che bisogna lottare per “un diritto naturale che tuteli la famiglia normale”, oppure che “la famiglia omosessuale è manchevole dei presupposti di base del concetto stesso di famiglia”, da intendersi unicamente come istituzione naturale fondata sull'unione matrimoniale tra un uomo e una donna. Viene continuamente messa in campo la ferma convinzione che l’omogenitorialità sia inammissibile in relazione al fatto che i vincoli/limiti imposti dalla natura in relazione alla generatività/procreazione implichino di fatto l'impossibilità per gay e lesbiche di esercitare quelle funzioni a cui sono “naturalmente” predisposti gli uomini e le donne all'interno di un nucleo familiare strutturato, ossia rispettivamente la funzione paterna e quella materna. Da ciò un’idea di figli/e di gay e lesbiche come bambini/e sintetici/che, figli/e della chimica, organismi geneticamente modificati al pari dei prodotti OGM da osteggiare a livello di diffusione commerciale. Il più delle volte si scomodano illustri teorici o scienziati della storia del pensiero psicologico o psichiatrico per ribadire, in modo improprio, l’importanza per il bambino/la bambina di avere una figura paterna e materna per la formazione della propria personalità. Si afferma, infatti, che l’omogenitorialità sia un abominio in quanto negherebbe il sacrosanto diritto dei bambini e delle bambine di avere un padre e una madre, essendo per questo motivo fonte di violenza psicologica e disadattamento sociale e relazionale a causa di un capriccio di adulti/e omosessuali. A tutto questo si accompagnano credenze tese a ribadire con veemenza che l’omosessualità sia una patologia, un disturbo che implica perversione, disfunzionalità, instabilità relazionale e immoralità. Si parla oggi di terapie riparative in grado di mettere in atto processi di ri-orientamento all’eterosessualità; come se l’omosessualità fosse un guasto della personalità che richieda interventi correttivo-riabilitativi e di riparazione. Soprattutto in questo periodo è molto diffusa una preoccupazione sociale e culturale nei confronti di una presunta “ideologia gender”, considerata alla stregua di una delle ideologie più perniciose per l’umanità (Suitner & Pacilli, 2016; Garbagnoli, 2014). Attraverso un’iperbole o azzardo del pensiero, i teorici dell’esistenza dell’ideologia gender ritengono che sia ora in atto, come diretta emanazione di una dittatura omosessualista, la diffusione di prassi e saperi che sferzano un attacco violento e diretto ai principi dell’esistenza e della natura umana, ossia al fondamento oggettivo della differenza e complementarità dei sessi. Ne deriverebbe una forte confusione in campo giuridico e gravi violazioni dei diritti dei bambini e delle bambine. Da qui la necessità di un’attenzione educativa del tutto nuova da parte di genitori, insegnanti, educatori che dovrebbero tutelare i/le giovani di oggi, i quali a causa di tale pressante ideologia si troverebbero a crescere in un contesto che mette in discussione i principi cardine su cui costruire la propria identità e personalità. Sullo stesso livello del discorso, l’educazione alle differenze viene considerata lo strumento per la reificazione di una sorta di “plagio omosessualista” (etichetta peraltro difficile da comprendere), intendendo gli interventi volti a contrastare il dilagante e preoccupante fenomeno della violenza o del bullismo omo-transfobico, come uno dei mali del nostro sistema educativo e formativo. Si tende ad ostacolare potentemente il tentativo di decostruire a livello sociale e culturale l’omofobia, sulla base di una presunta rivendicazione e difesa di una libertà di pensiero, incentrata sulla ferrea convinzione che l’omofobia sia e debba essere considerata come un’opinione da poter esprimere e preservare e non una grave e violenta forma di negazione dei diritti umani (Taurino, 2016).
A partire da tali premesse, questo articolo nasce con l’obiettivo di chiarire quali siano i costrutti che devono guidare la conoscenza e l’analisi delle famiglie e delle genitorialità omosessuali, con l’auspicio di riuscire a definire simbolicamente uno spazio di co-costruzione di modelli culturali pluralisti ed inclusivi. Lo scopo è quello di riattraversare criticamente sistemi di conoscenza stigmatizzanti, per la condivisione di paradigmi interpretativi incentrati sull’ ampliamento degli orizzonti di senso mediante i quali approcciare la complessità della nostra realtà socio-culturale; come abbattimento di chiusure comunicative, destrutturazione del pregiudizio, della discriminazione, dell’esclusione, della deumanizzazione. Il senso della riflessione non è quello di convincere in modo ideologico della funzionalità della genitorialità omosessuale, ma di presentare e discutere approfonditamente i criteri epistemologici e metodologici per guardare alla genitorialità come complessa funzione psicologica e non semplicemente come dimensione di ruolo da ascrivere alla sola matrice eterosessuale. L’intento è quello di condurre la discussione, assumendo come ancoraggio teorico il presupposto che per esplorare la specificità dei nuclei omogenitoriali bisogna acquisire una lente interpretativa che prescinda da impostazioni di stampo omofobico. Se, infatti, l’omosessualità non è un disturbo mentale- come ampiamente sostenuto in ambito scientifico dalle più importanti associazioni mondiali che si occupano di salute mentale- perché considerarla ancora una disfunzionalità, una malattia? Su quali basi si continua ad affermare che l’orientamento omosessuale possa irrimediabilmente interferire con l’esercizio della responsabilità genitoriale, sebbene la ricerca in tale ambito disconfermi tale asserzione? Se la genitorialità è una dimensione che implica il rimando a precise competenze che in linea generale ineriscono la dimensione della cura, secondo quali criteri è possibile pensare che le persone omosessuali possano non avere o non abbiano tale competenza? Perché a livello sociale e culturale persiste e resiste una visione di omogenitorialità come contesto disadattivo e deviante per la crescita dei bambini e delle bambine?
Questi interrogativi non possono di certo essere risolti in modo veloce e facendo appello a posizionamenti ideologici; il braccio di ferro ideologico non avrebbe alcuna efficacia rispetto alla decostruzione di concezioni, che si configurano come falsate o alterate, proprio perché fanno leva su categorie utilizzate in modo strumentale e manipolatorio. Il fondamento che guiderà le nostre argomentazioni è la considerazione che per parlare di famiglia e genitorialità omosessuale è necessario interrogarsi su che cosa sia la famiglia e la genitorialità in termini generali, recuperando solo attraverso la capacità performativa delle definizioni- ossia la capacità delle definizioni di dare statuto di realtà a ciò che viene nominato/definito- gli elementi in grado di smontare le distorsioni del pensiero attraverso cui si tenta di reiterare un atteggiamento negativo nei confronti dell’omoparentalità
Famiglie e genitorialità plurali: modelli interpretativi e criteri metodologici
Il discorso sulla famiglia omosessuale va collocato all'interno di più ampie considerazioni inerenti l'attuale fenomenologia dell'oggetto famiglia, ossia le modalità di configurazione ed organizzazione dei sistemi familiari che è possibile osservare nel nostro scenario sociale e culturale. Lo sguardo attento e continuo alle mutazioni che hanno investito il corso delle ultime generazioni, consente, infatti, di rilevare che le odierne costellazioni familiari si presentano come molteplici, integrando ed ampliando il concetto di famiglia nucleare organizzata sul modello della tradizione. Anche i contesti in cui la funzione genitoriale può esplicarsi risultano essere complessi e multiformi per dimensioni, organizzazione interna, funzione. Oggi è possibile rilevare famiglie differenti per struttura, per modalità di articolazione dei processi relazionali interni, per organizzazione delle dinamiche di gestione dei compiti di sviluppo dei singoli componenti e di tutto il sistema, per capacità di attuazione di strategie di coping o resilienza rispetto alle sfide poste dalla contemporaneità (Fruggeri, 2007; 2005a). A livello sociale, il quadro della variabilità delle forme familiari comprende famiglie nucleari, estese, multiple, intatte, separate, ricomposte e ricostituite, famiglie di fatto, monogenitoriali, omologhe o miste dal punto di viste etnico, etc. (Saraceno, 1998; Fruggeri, 2005b; 2005c). E' proprio all'interno di tale multiformità che trova la sua collocazione anche la famiglia omogenitoriale. Sarebbe auspicabile, a livello metodologico, acquisire paradigmi di interpretazione che non tendano più a vedere come devianti quelle configurazioni familiari che non rispondano ad un univoco modello di famiglia ontologicamente definita “per natura”. Superare questa prospettiva implica la sospensione di quel processo che tende a tracciare un’indebita correlazione tra forme familiari e genitoriali "non tradizionali" e disfunzionalità, respingendo nell’area dell’anormalità, della patologia o della marginalità tutte quelle strutture che si discostano da un supposto prototipo universale. La variabilità delle attuali tipologie di famiglia non consente di impostare sistemi di classificazione di tipo valutativo solo sulla base della struttura formale, oppure sulla base del principio secondo il quale la funzionalità sarebbe associata solo ed esclusivamente alla aderenza o meno ad un modello standard. La famiglia nucleare eterosessuale è una delle tante forme d’organizzazione dei rapporti primari possibili, ma di certo non l'unica. Ogni sistema familiare e genitoriale ha un proprio statuto di realtà ed esistenza nel continuum delle variegate configurazioni note. La differenza non produce necessariamente logiche di contrapposizione e reciproca esclusione, ma apre ad auspicabili dinamiche di integrazione e attuabile convivenza. Questo implica la reificazione di una cultura delle differenze che guardi alla pluralità come valore, ricchezza, opportunità, e non come minaccia, disordine, crisi. Una cultura delle differenze che consenta l’accesso alla decostruzione del mito della “famiglia naturale”. Come hanno, infatti, ampiamente dimostrato gli studi di matrice antropologica, sociologica, giuridica e psicosociale, la famiglia, lungi dall'imporsi come un’entità naturale ed universale, si configura come un'istituzione in continuo divenire in stretta relazione con le processualità socio-culturali in cui è inserita; ovvero come un prodotto socio-culturale e storicamente definito, sottoposto a continui processi di modificazione delle sue strutturazioni interne (Cavallo, 2016; Saraceno, 2012). E’ pertato importante riconoscere su questo livello della riflessione, che si scambia per naturale (la famiglia nucleare tradizionale) ciò che è, invece, l’esito di processi di naturalizzazione, ossia della trascrizione dei dati ritenuti naturali (in quanto considerati ovvi e consolidati) entro un ambito di attribuzione di significati che sono culturalmente o ideologicamente determinati (paradigma eteronormativo centrato sull’univocità del modello familiare). Gli esiti di tale prospettiva, in modo più esteso, permettono di rilevare alcune contraddizioni concettuali insite in visioni che tendono a delegittimare le famiglie omosessuali. Qui basti considerare a mò di inciso come rileva Bin (2000), che sostenere, ad esempio, che "la famiglia è una società "naturale" e, ad un tempo, fondata sul "matrimonio" è associare attributi tra loro incompatibili, dato che il matrimonio è un istituto giuridico che non appartiene affatto alle forme "naturali" dell’organizzazione sociale, ma a quelle convenzionali, determinate dalle regole contingenti poste dalla legislazione vigente. Non è affatto "naturale" che la gente si sposi, anche se la maggioranza lo fa (anzi, alcuni lo fanno più volte): è una libera scelta da cui derivano specifiche conseguenze giuridiche" (Bin, 2000, pag. 1068). La connessione tra famiglia e matrimonio non è assolutamente da ascrivere all'ordine naturale, ma al complesso delle processualità socio-culturali. Su questo piano del discorso, la negazione del matrimonio omosessuale così come della famiglia omosessuale non è da riferire ad un incontrovertibile principio naturale, ma deve essere visto come il derivato di convenzioni tese a creare processi di standardizzazione normativa su base ideologica, creando uno scollamento tra il piano reale, ossia il riconoscimento dell'esistenza di fatto delle famiglie omogenitoriali, e quello socio-culturale e giuridico, fondato su codici tesi invece a reiterare il loro disconoscimento.
Un ulteriore elemento sui cui è doveroso fermare l'attenzione è la considerazione che l’individuazione delle sovrastrutture attraverso cui è stato costruito l'idealtipo di famiglia naturale, porta alla necessità di aprire uno spazio di interrogazione sulle radici concettuali dell'oggetto famiglia. Quali sono gli elementi fondativi e costitutivi della famiglia, una volta riconosciuto che la struttura, la configurazione sono elementi esterni ed accessori, socialmente costruiti e quindi derivati, e non primari e strutturanti? Ciò che definisce la famiglia è il sistema delle relazioni, il mondo degli affetti, la comunità dei legami. Sono queste le dimensioni fondative della famiglia, che tagliano trasversalmente tutte le configurazioni esistenti. Questo sposta completamente l'asse dei significati. Oggi non dovremmo più chiederci quali sia la forma di famiglia che deve essere assunta ad icona e prototipo del costrutto universale di "Famiglia", ma proprio a partire dalla pluralità dei modelli e contesti familiari e genitoriali, focalizzare l'attenzione sulle modalità attraverso le quali in ogni tipologia di famiglia si possono attualizzare ed articolare, in modo assolutamente efficace e funzionale, quelle processualità relazionali che definiscono l'adeguatezza dell'esercizio delle competenze e delle funzioni genitoriali. Assumere tale impostazione implica l’evitare che la difesa della famiglia naturale fondata su istanze ideologiche porti all'affermazione di sistemi di credenza che si traducono in una vera e propria deumanizzazione delle persone gay e lesbiche, alle quali viene negata la possibilità di realizzare la propria genitorialità come progetto di vita responsabile e consapevole, solo ed esclusivamente a causa del loro orientamento sessuale.
Dalla famiglia alla genitorialità: le trappole di domande apparentemente neutre
Se la discussione finora condotta ha consentito di chiarire i criteri su cui impostare l’analisi dell’oggetto famiglia, è altrettanto necessaria un’attenta focalizzazione sul costrutto di genitorialità. A livello preliminare, per entrare in modo più diretto ed incisivo nel cuore delle questioni che ineriscono il tema dell’omogenitorialità, gli interrogativi da cui si potrebbe partire e che sembrerebbero definire l’assetto generale della questione sono i seguenti: gli omosessuali sono o possono essere dei buoni genitori? I genitori omosessuali sono in grado, rispetto ai figli e alle figlie, di esercitare in modo adeguato la loro funzione genitoriale?
Rispondere in modo diretto a tali domande, espone al rischio di non riuscire a disvelare i bias che sono alla base della loro formulazione. Chiedersi se gay e lesbiche possano esercitare la genitorialità in modo valido e competente, vuol dire in realtà domandarsi se gli/le omosessuali possano svolgere tale funzione al pari delle persone eterosessuali. Si collude in tal modo con l’idea che la genitorialità sia un costrutto strettamente connesso all’eterosessualità: non ci si chiede mai, infatti, se gli eterosessuali possano essere o meno dei buoni genitori, ossia se l’orientamento eterosessuale possa agire in qualche modo in termini disfunzionali sull’esercizio delle competenze genitoriali. L’implicito è che, in termini interpretativi, debba essere esplorato il nesso tra genitorialità ed omosessualità. Ma quale è la relazione tra esercizio della funzione genitoriale ed orientamento omosessuale? Esiste tale relazione? E se esiste, può essere in grado di spiegare la reciproca influenza di tali costrutti?
Il punto su cui si intende centrare la discussione è che non si possa semplicemente dare una risposta alla domanda (oramai ampiamente indagata) relativa alle competenze omogenitoriali, ma che sia necessario spostare il focus dal giudizio o valutazione sulle/delle competenze omogenitoriali, alla delineazione dei presupposti su cui si deve fondare la valutazione della genitorialità in senso più ampio, identificando quali siano, a monte, gli elementi cui fare riferimento per rilevarne le sue dimensioni strutturali. In altri termini, prima di analizzare il rapporto tra genitorialità e dimensione omosessuale è di fondamentale importanza chiarire, a livello preliminare, quali siano i criteri fondativi o caratterizzanti una buona o cattiva genitorialità, per vedere successivamente se tali criteri possano esplicitare, in termini di costrutto, in che modo l’orientamento sessuale (omo o anche etero) incida oppure no sull’esercizio delle competenze genitoriali.
Disambiguando i termini della discussione, ne consegue che le domande cardine a cui si deve dare una risposta, prima di interrogarsi e rispondere circa l’adeguatezza o non adeguatezza della genitorialità omosessuale, risultano pertanto le seguenti: che cosa è la genitorialità? Quali sono le sue dimensioni costitutive? Quali gli elementi in grado di connotarla come funzionale o disfunzionale? Secondo quali criteri è possibile analizzare le diverse declinazioni della genitorialità, inclusa quella omosessuale?
La genitorialità come funzione di cura
Entrando nell’ambito della definizione, in termini psicologici la genitorialità può essere intesa come una funzione psicologica fortemente connessa alle competenze di cura. Alla luce degli studi di matrice clinico-dinamica, la genitorialità non si configura come una dimensione di ruolo strettamente collegata alla coniugalità (vale a dire che si può essere genitori soltanto all’interno di una relazione di coppia sancita e riconosciuta dal discorso sociale) o alla generatività (si è genitori soltanto nel momento in cui si genera/procrea), quanto piuttosto come una funzione autonoma e processuale dell’essere umano, preesistente alla generatività biologica che è solo una delle sue espressioni, fondamentale ma non necessaria (Fava Vizziello, 2003). Da questo punto di vista la genitorialità è una funzione che qualsiasi individuo, indipendentemente dall’essere genitore, sviluppa fin dai primissimi momenti della propria vita (Fava Vizziello, 2003, pag. 145), delineandosi come uno spazio psicodinamico che inizia a formarsi precocemente attraverso l’interiorizzazione di schemi comportamentali legati alla dimensione della cura, scripts, messaggi verbali e non verbali, aspettative, desideri, esperienze, rappresentazioni, ricordi, miti, modelli comportamentali e relazionali, fantasie, angosce legate alla propria storia affettiva in continua evoluzione, insieme a tutto il sistema di fantasie veicolate dalle figure genitoriali (Bastianoni & Taurino, 2007).
Ma oltre alla dimensione della cura, quali sono le competenze insite in una buona genitorialità?
Sintetizzando i contributi dei maggiori teorici su questo tema, è possibile rilevare che a definire la genitorialità è tutto un sistema di competenze costituito da diverse sotto-funzioni (Taurino, 2016) che è fondamentale in questa sede descrivere. Tali sotto-funzioni sono strettamente collegate, alle capacità dell’individuo di:
- garantire le funzioni di base (nutrimento, accudimento, protezione dai pericoli);
- assicurare presenza, condivisione, affettività, educazione, etc.;
- provvedere all’altro, di conoscerne l’aspetto e il funzionamento corporeo e mentale in cambiamento, di esplorarne via via le emozioni (Fava Vizziello, 2003);
- saper riconoscere i segnali di bisogno dell’altro (Bornestein, 2003);
- saper cogliere lo stato della mente dell’altro. A questo proposito Meinse e collaboratori (2002) introducono il concetto mind-mindedness, intesa come la capacità del caregiver di pensare il/la bambino/a come dotato/a di una mente fin dai suoi primissimi momenti di vita, trattandolo come soggetto dotato di una mente. Gli autori hanno offerto una definizione operazionale di tale costrutto, identificandolo soprattutto come la capacità del caregiver di commentare, interpretare e restituire gli stati emotivi del/della bambino/a, espressi o inferti durante le attività di gioco di quest’ultimo/a nei primi anni di vita (Meins et al., 2002);
- saper cogliere la soggettività dell'altro, come processo che contrasta il desiderio di vedere l'altro come parte o derivato di se stessi, in un processo attivo di intersoggettività che precisi quali sono i confini da rispettare, perché il problema del confine corporeo o psichico è importante in tutti rapporti, ma in modo particolare nella genitorialità (Fava Vizziello, 2003);
- garantire protezione, attraverso la costruzione di pattern interattivo-relazionali legati all’adeguatezza dell’accudimento emotivo-affettivo e centrati sulla risposta al bisogno di protezione fisica e sicurezza (Bowlby, 1976; 1978; 1982; 1983; 1989; Brazelton & Greenspan, 2001);
- entrare in risonanza e sintonizzazione affettiva con l'altro senza esserne inglobato, strutturando un mondo di affetti come dimensione emotivo-affettivo in cui l’altro è inserito (Stern, 1998, 2007);
- garantire regolazione, laddove per regolazione si intende la strutturazione di strategie che mettano l’altro nella condizione di "regolare" i propri stati emotivi e organizzare l'esperienza e le risposte comportamentali adeguate che ne conseguono (Beebe & Lachmann, 2003);
- dare dei limiti, una struttura di riferimento, un’impalcatura/format, una cornice che risponda a quel fondamentale bisogno soggettivo di vivere dentro una struttura di comportamenti coerenti (funzione normativa della genitorialità);
- prevedere il raggiungimento di tappe evolutive dell’altro (funzione predittiva della genitorialità); genitori adeguati sono coloro che sanno percepire in modo realistico gli stadi evolutivi dei bambini e sanno nel contempo intuire quei comportamenti che sviluppano e promuovono nuovi comportamenti (Manzano, Palacio-Espasa & Zolkh, 2001);
- consentire all’altro, sulla base di interazioni reali, la costruzione di schemi rappresentazionale relativi all’essere-con (Stern, 2007) (funzione rappresentativa della genitorialità);
- dare un contenuto pensabile e/o sognabile, in definitiva utilizzabile dall'apparato psichico (funzione significante della genitorialità); Bion (1962) parla di funzione alpha genitoriale come capacità di dare un contenuto utilizzabile dal sistema psichico alle sensazioni, alle percezioni del neonato, che sono ancora prive di spessore dinamico. La madre diviene in tal modo un contenitore dentro e attraverso il quale poter cominciare a strutturare la propria possibilità di pensare e pensarsi, in un complesso intreccio intersoggettivo fatto di reciproche proiezioni e identificazioni; n) garantire una funzione transgenerazionale, da intendersi come la capacità di immettere l’altro dentro una storia una narrazione (miti e racconti familiari) come contenitore simbolico di un continuum o generazionale (nel caso di figli generati) o inclusivamente simbolico (nel caso delle genitorialità non biologiche: adozioni, comunità, etc.).
Genitorialità ed orientamento sessuale: quale relazione?
Focalizzando l’attenzione sulle sotto-funzioni genitoriali appena descritte ed avendo come riferimento il discorso sulla genitorialità omosessuale, emergono i seguenti interrogativi: secondo quali presupposti teorici si può asserire che un soggetto omosessuale possa essere un individuo incapace di garantire protezione, affetto, cura e sicurezza? O meglio, quali sono le variabili in grado di chiarire in modo inequivocabile che un soggetto eterosessuale è per definizione in grado di agire in modo adeguato la protezione, l’affetto, la cura e la sicurezza, etc., sulla scorta di caratteristiche innate e naturali? Sulla base di quali principi è possibile affermare che un individuo eterosessuale sia inconfutabilmente capace di esercitare la funzione di format, di normatività, di garanzia di regolazione, di sostegno/supporto alla costruzione di schemi mentali ed emotivo-affettivi efficaci ed idonei per l’altro? Quali sono gli elementi che riescono ad esplicitare l’impossibilità dell’esercizio di tali funzioni da parte del soggetto omosessuale?
Questi interrogativi, che ancora una volta rimandano alla riflessione sui pregiudizi ad essi sottostanti, consentono di rilevare che l’orientamento sessuale è una dimensione autonoma, che non interferisce con nessuna delle componenti alla base della funzione genitoriale. Non ci sono presupposti teorico-concettuali, al di là di visioni preconcette, sulla base dei quali è possibile asserire che un soggetto con orientamento omosessuale sia un individuo incapace di esercitare la funzione genitoriale. In modo ancora più incisivo è possibile rilevare, allo stesso modo, che non ci sono variabili in grado di chiarire, in modo inequivocabile, che un soggetto eterosessuale è di default competente rispetto a tale funzione. I casi di maltrattamento ad abuso all’infanzia presenti in famiglie nucleari con genitori eterosessuali mettono, ad esempio, in evidenza come l’eterosessualità non sia immediatamente collegata ad un’adeguata espressione della genitorialità, sottolineando che la grave disfunzionalità di tali famiglie sia da collegare a complessi fattori di rischio interagenti tra loro e non all’orientamento sessuale dei genitori. Ne consegue che la variabile orientamento sessuale è completamente indipendente rispetto all’esercizio (funzionale o disfunzionale) delle capacità insite nel costrutto di genitorialità (sia eterosessuale, sia omosessuale).
Se, inoltre, per puro e paradossale esercizio del pensiero, si volesse ammettere che l’orientamento sessuale incida sul sistema dinamico individuale che sottende l’esercizio della funzione genitoriale, rimarrebbe tuttavia da dimostrare in che modo sussista la supposta correlazione tra eterosessualità e funzionalità, così come tra omosessualità e disfunzionalità, prescindendo da posizioni cariche di pregiudizio che tendono a considerare l’omosessualità stessa non come uno degli orientamenti sessuali possibili, quanto più che altro come una condizione patologica, disfunzionale, malata e perversa. Concezione quest’ultima dichiarata assolutamente erronea, fallace ed inconsistente dalle maggiori associazioni mondiali che si occupano di salute mentale.
Famiglia, genitorialità, omosessualità: quali considerazioni conclusive?
La nostra riflessione è partita dall’attraversamento del costrutto di famiglia, per poi transitare al concetto di genitorialità e alle sue diverse e complesse funzioni. Sulla base di tale approccio, questo contributo ha inteso approfondire i criteri metodologici ed epistemologici per decostruire le maglie restrittive e rigide di quel pensiero unico, fondato su istanze eteronormative e genderiste, che lasciano poco spazio all’affermazione di modelli culturali in grado di dare statuto di esistenza, legittimazione e tutela alle persone omosessuali come genitori e soprattutto ai loro figli e alle loro figlie. Su questo livello di analisi, sfatare o superare logiche discriminanti in tema di omogenitorialità vuol dire riconoscere che slogan quali “i bambini hanno bisogno di un padre e di una madre”, “dobbiamo garantire i diritti dei bambini di crescere in famiglie normali”, “per i bambini la vera famiglia è quella costituita da un padre e una madre che svolgono funzioni differenti ed integrate” celano in realtà -sotto le false preoccupazioni per il principio imprescindibile e sovraordinato della tutela del bene dei minori- un atteggiamento di fortissima opposizione nei confronti dell’omosessualità, considerata ancora come una “condizione” patologica, disfunzionale e perversa. Nello stesso tempo manifestano un atteggiamento di difesa della tradizione, mettendo sullo stesso piano, come elementi consequenziali del simbolico sillogismo del pregiudizio, la difesa dello status quo, il sessismo e l’omofobia; il tutto con la conclusiva deduzione che è impossibile riunire all’interno della medesima etichetta semantica termini quali famiglia/genitorialità ed omosessualità.
E’ necessario partire da un’ammissione di fondo: finché non si destrutturerà il pregiudizio nei confronti dell’omosessualità, non ci potrà mai essere uno spazio neutro di parola e pensiero sulla famiglia e sulla genitorialità omosessuale. E’ l’omosessualità dei genitori la vera questione problematica che ostacola la possibilità di guardare alla genitorialità di persone gay o lesbiche in modo scevro da impostazioni stigmatizzanti. Si tende a confondere i piani della discussione, esprimendo un atteggiamento politically correct che tende a risolvere la questione di un’eventuale legittimazione socio-culturale dell’omosessualità, attraverso la riproposizione di una separazione/scissione tra un ambito privato e personale (omosessualità come supposta scelta di vita attraverso la quale ognuno può amare o desiderare chi vuole) e un ambito pubblico (organizzazione sociale in cui le scelte personali non devono ricadere sullo Stato, sulla società e sulla modificazione degli ordinamenti giuridici in tema di matrimonio, famiglia e genitorialità). Tuttavia è utile ribadire che se il (presunto) personale non diventa pubblico, si continuerà e reiterare logiche di negazione e disconoscimento del principio di cittadinanza delle persone omosessuali, replicando l’infondata convinzione che l’omosessualità sia una scelta personale e che le relazioni omosessuali (coniugali, familiari, genitoriali) non possano avere un riconoscimento nell’ordine pubblico. L’omosessualità non è una scelta ma, come ribadito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, dall’American Psychiatric Association e dall’American Psychological Association (solo per citare alcune delle più importanti associazioni ed organizzazioni mondiali che si occupano di salute e salute mentale) una variante naturale del comportamento sessuale umano.
E’ arrivato il momento di superare presunti teoremi sull'origine dell’omosessualità da ricercare in situazioni traumatiche infantili o in esperienze relazionali disfunzionali; ipotesi eziopatogenetiche che ricalcano le peggiori teorie omofobe su tale questione. Avrà senso ricercare le cause dell’omosessualità, quando si ricercheranno allo stesso modo le cause dell’eterosessualità; ma a quel punto tale indagine etiologica non avrà più modo d’esistere, in quanto sarà del tutto superato ed annientato il senso implicito e latente di tale speculazione, ossia l’applicazione di modelli deterministico-causali ad una realtà considerata come patologica sulla base della contrapposizione tra un criterio di naturalità/normalità (attribuita all’eterosessualità) e uno di disfunzionalità, anormalità (attribuito all’omosessualità).
Quando realmente e concretamente saremo pronti ad interiorizzare ed accogliere tali paradigmi, solo allora si potrà organizzare un discorso sulla genitorialità omosessuale che non ricalchi le vie del pregiudizio. Solo allora la stessa etichetta “omogenitorialità” probabilmente non avrà più motivo di sussistere, perché sarà direttamente ricondotta e ricompresa (senza necessità di qualificazioni specificanti) nel contenitore semantico più ampio e sovraordinato della genitorialità; genitorialità che, è utile ribadirlo, non ha nulla a che vedere con l’orientamento sessuale o l’identità di genere dei genitori. Si è, e si può essere, buoni o cattivi genitori a prescindere dall’essere eterosessuali o omosessuali, cisgender o transessuali, etc. Si potrebbe dire in modo provocatorio che il vero superamento del pregiudizio si verificherà nel momento in cui gay o lesbiche potranno anche essere dei cattivi genitori (come può accadere proprio in virtù dell’indipendenza tra capacità genitoriale ed orientamento sessuale), senza che il giudizio inerente la loro eventuale pessima genitorialità sia collegato all’orientamento sessuale, ma più che altro alla loro incapacità di gestire i processi della responsabilità genitoriale (così come accade per le persone eterosessuali). Allo stesso modo si assisterà ad un vero capovolgimento di prospettiva quando le persone omosessuali non saranno più irriducibilmente incastrate nella logica di dover offrire un’immagine perfetta di sé e dei propri contesti di relazione. Per quanto a tratti sia difficile da accettare, nelle nostre esperienze di vita gli amori finiscono, i legami possono spezzarsi, eventi avversi possono minare alle base relazioni coniugali o rapporti familiari; questa eventualità riguarda ed attraversa tutti e tutte, uomini e donne eterosessuali, così come uomini gay e donne lesbiche. Il pregiudizio verrà realmente superato nel momento in cui gli/le omosessuali non saranno più esposti/e , nell’ordine del simbolico, a quel compito paradossale e contraddittorio rispetto al quale o sono del tutto misconosciuti come coppia, come famiglia e/o come genitori, oppure devono essere necessariamente rappresentanti di un modello di coppia inscindibile, di famiglia perfetta o di genitorialità ineccepibili, per non dover pagare il conto che la causa di un’eventuale imperfezione sia inevitabilmente ed irrimediabilmente ricondotta e ricollegata al loro orientamento sessuale.
Su un ulteriore piano della riflessione, ancora oggi in alcuni ambiti della ricerca nazionale ed internazionale si intende verificare la funzionalità della genitorialità omosessuale nell’ottica dei processi evolutivi dei figli/delle figlie, come se fosse ancora necessario indagare tale aspetto. La vera questione è, in realtà, interrogarsi su come e cosa fare per garantire e proteggere quei/quelle minori che ancora vivono nella terra di mezzo del non riconoscimento della loro appartenenza familiare e dell’assenza di tutele. E’ su questi fondamenti che si dovrebbe ripensare e reimpostate la questione relativa alla garanzia del bene dei minori. Un bene negato da quel vuoto normativo in materia di famiglia omogenitoriale; vuoto che peraltro ci si ostina non colmare, sulla base della continua riproposizione di atteggiamenti di forte opposizione nei confronti della legittimazione giuridico-sociale della famiglia omogenitoriale. Un vuoto che crea individualità e contesti relazionali “apolidi”, privi di cittadinanza, di rappresentanza; una privazione che è di fatto il chiaro segno di gravi, reiterate e pervicaci forme di violenza istituzionale.
Finché il diritto non cambierà, le culture e le società non cambieranno. I processi di trasformazione socio-culturale si definiscono in quella zona di osmosi e di intersezione continua e dinamica tra macro-sistemi (cultura, diritto, leggi, ideologia, etc.) e micro-sistemi (relazione intersoggettiva, interazioni concrete e tangibili tra gli individui; credenze individuale, sistemi sociali fatti di persone in carne ed ossa come soggetti attivi e portatori di doveri, diritti, istanze, desideri, etc.). Finché non ci sarà un concreto cambiamento di paradigmi di interpretazione e lettura della realtà familiare/genitoriale, la violenza istituzionale di tipo omofobico continuerà a configurarsi come lo strumento principe per l’attivazione di processi di reificazione, riproduzione, mantenimento, riproposizione, rafforzamento e potenziamento del modello eteronormativo e degli stereotipi e modelli culturali eterosessisti.
E’ necessario, come più volte abbiamo evidenziato, acquisire criteri interpretativi in grado di leggere la realtà secondo logiche di accoglienza, rispetto, negoziazione. Ecco cosa implica il riferimento a modelli che possiamo definire pluralisti ed inclusivi.
Assumere un modello pluralista vuol dire sostenere che le varie tipologie di famiglia possono organizzare le loro dinamiche interne secondo modalità che possono essere simili, oppure alquanto differenti, ma non per questo disturbate o disfunzionali, dal momento che l'eventuale diversità non riguarda la qualità delle dinamiche o la sostanza dei processi, bensì le procedure e i modi attraverso cui essi si realizzano.
Assumere un modello pluralista significa riconoscere che la funzionalità o disfunzionalità delle famiglie non dipende dalla struttura (eterosessuale o omosessuale, ma anche nucleare o allargata, intatta o ricomposta, etc.) ma dalla qualità dei legami e dei rapporti che in esse prendono forma. Viene pertanto spostato l’asse della valutazione del funzionamento familiare/genitoriale dal piano delle caratteristiche strutturali/morfologiche, al versante dei processi interattivi e relazionali interni alle strutture stesse. Rispetto a questo specifico ambito, la ricerca psicologica ha messo in evidenza che i/le figli/e che crescono in famiglie con genitori conviventi, separati, risposati, single o omosessuali, non corrono più rischi di sviluppare dei problemi di quanti ne corrano quelli/e che crescono in famiglie con genitori sposati e eterosessuali. Si tratta di modi diversi di organizzare i rapporti primari, ognuno dei quali ha proprie caratteristiche specifiche, ma tutti potenzialmente in grado di provvedere alle funzioni familiari e genitoriali. Rispetto a tali funzioni, nessuna forma familiare è di per sé più garantita di altre.
Assumere un modello pluralista ha come effetto diretto la revisione di impostazioni pregiudizievoli nei confronti delle famiglie omogenitoriali che si fondano su posizioni che è possibile definire, in termini categoriali, come:
- naturalistiche: esiste un unico modello naturale di famiglia, ovvero la famiglia legittima è quella impostata sulla differenza biologica tra uomini e donne, condizione naturale per garantire la procreazione e quindi l'assolvimento delle funzioni genitoriali fortemente connesse alle differenze di genere dei coniugi/genitori;
- essenzialiste: esistono pochi elementi "essenziali" per descrivere un oggetto sociale; non esiste una complessità intrinseca all'oggetto famiglia, in quanto vi è un unico elemento che ne definisce essenza e struttura, ossia la differenza di genere dei coniugi;
- eterocentriche: eterosessualità è l'unico orientamento sessuale possibile; l'omosessualità è una deviazione patologica dell'orientamento sessuale; l'unica forma di famiglia possibile è quella costituita da una coppia eterosessuale.
La scelta di un modello pluralista consente di promuovere la valorizzazione delle differenze contro ogni forma di dogmatismo che tenti di far passare per oggettiva una processualità discriminante, storicamente e culturalmente determinata. Tale approccio implica la decostruzione degli esiti dei processi di naturalizzazione dell’esistente, rivelando come le attuali tipologie di famiglia e genitorialità suggeriscano una trasformazione culturale, sociale e giuridica del costrutto di famiglia e genitorialità Assumere un modello pluralista vuol dire legare paradigmi di analisi politica, istituzionale, culturale, sociale, etc. a forme familiari/genitoriali che già esistono e richiedono criteri di legittimazione, riparando quello scollamento tra realtà e modelli di lettura della realtà stessa. In tal modo si sottrae terreno alla reiterazione di quei processi di discriminazione che sono oramai intollerabili all'interno di società civili che dovrebbero riconoscere il diritto di ogni individuo all'autodeterminazione, da intendersi come dinamica con profonde valenze relazionali, poiché essa non apre al relativismo, ma alla reciprocità, alla condivisione, al rispetto delle identità all’interno di una matrice intersoggettiva.
Assumere un modello pluralista vuol dire smontare la centralità attribuita al paradigma eterosessuale, destrutturando i presupposti di quel dispositivo di regolazione socio-simbolica di tipo eteronormativa che detta le regole e le norme per la continua esclusione di ciò che non si conforma al campo delle aspettative sociali e culturali legate alla sessualità e alle sue molteplici dimensioni, in funzione di una standardizzazione della realtà intesa come criterio di ordine sociale. Decostruire tale dispositivo vuole dire minare alla base le radici dell’omofobia istituzionalizzata, ossia quel sistema di credenze, rappresentazioni, atteggiamenti, comportamenti, azioni anti-omosessuali che reificano prassi violente e discriminatorie nei confronti di gay e lesbiche e dei/delle propri/e figli/figlie.
Assumere un modello pluralista implica addivenire ad un'idea famiglia omosessuale come dimensione che non determina disordine sociale, caos, minaccia, confusione, annientamento dei principi sociali, giuridici, antropologici su cui si regge la società, dal momento che tale concezione inerisce l'influenza di processi omofobici sulla base dei quali il sistema socio-culturale mette in atto il mantenimento dello status quo, la deumanizzazione delle persone omosessuali rispetto al loro progetto e desiderio genitoriale. Se il valore della famiglia è quello di consentire alla persona di realizzare la pienezza delle proprie relazioni, in base a quale criterio si può negare tale diritto, possibilità ed opportunità alle persone omosessuali e ai loro figli e figlie?
Interiorizzare modelli pluralisti vuol dire credere nel cambiamento, in una cultura del diritto e della relazione. Vuol dire incarnare un principio di responsabilità personale in cui ogni azione individuale diviene un tassello fondamentale per la costruzione di società autenticamente democratiche e scevre dal pregiudizio. Vuol dire agire, attraverso i propri posizionamenti identitari, per creare le premesse per un mondo migliore; un mondo fatto di riconoscimento di dignità, libertà, legami, cittadinanza, civiltà e, soprattutto tutela e garanzia di inalienabili ed inviolabili diritti umani di adulti e bambini/e.
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