Nel poema epico-mitologico le Metamorfosi, Ovidio racconta di Medusa, mostro con capelli di serpente, in grado di trasformare in pietra chiunque la guardasse. Quello che è meno noto di Medusa è come sia divenuta un mostro. Medusa viene descritta da Ovidio come originariamente di una bellezza rara, ricordata soprattutto per la magnificenza dei suoi capelli. Una delle interpretazioni del mito di Medusa narra che un giorno il dio del mare, Poseidone, violentò Medusa nel tempio di Minerva, dea delle arti, della sapienza e della guerra. Minerva percepì l’accaduto come un affronto meritevole di una punizione divina. La punizione di Minerva, però, non colpì Poseidone, ma Medusa, trasformando i suoi capelli in un groviglio di serpenti e rendendo il suo sguardo pietrificante. Per quanto si tratti solo di un mito, nella realtà sono molte le vittime di violenza di genere che subiscono e hanno subito un trattamento molto simile a quello subito da Medusa, che prende la forma della punizione simbolica e in particolare, dello screditamento, dell’attribuzione di colpa e responsabilità per quanto accaduto. Pensiamo al processo per stupro svoltosi a Cork (Irlanda) nel 2018, divenuto famoso per la strategia adottata dalla difesa per sostenere l’innocenza di un uomo accusato di aver stuprato una ragazza. In sede di processo, la difesa dell’uomo ha mostrato la biancheria intima che la vittima indossava al momento dei fatti, ossia un perizoma di pizzo, presentandola come la prova inequivocabile del fatto che la ragazza se la fosse cercata istigando l’uomo con un abbigliamento sessualmente allusivo. Avvicinandoci nello spazio e nel tempo, pensiamo al caso di violenza sessuale di gruppo subìta da una giovane ragazza a Palermo nel 2023. In una serata di luglio, sette ragazzi hanno trascinato a forza la ragazza in una zona isolata, dove l’hanno violentata, insultata e percossa, riprendendo il tutto con lo smartphone per poi abbandonarla lì e andarsene come nulla fosse. La violenza dopo la violenza in questo caso ha preso la forma non solo delle minacce di ulteriori aggressioni da parte dei denunciati per far ritirare la denuncia, ma anche dello screditamento sociale e del danno reputazionale. In particolare, i giudizi negativi e la colpevolizzazione sono passati attraverso i media tradizionali e digitali, sottoforma di commenti di giornalisti/e, di utenti dei social network, di concittadini/e che alludevano al fatto che la ragazza si presentasse in maniera troppo sensuale e provocante sui social media, che avesse uno stile di vita troppo libertino, che fosse ubriaca la sera della violenza, in poche parole, che se la fosse cercata. Quanto accomuna questi e tanti altri casi è che fattori extralegali (in inglese, extralegal factors, Baldry & Winkel 2008), ossia elementi irrilevanti al fine di valutare la responsabilità per quanto accaduto – come l’abbigliamento o lo stile di vita – hanno distorto la percezione sociale dell’evento, sono stati trasformati nella prova che la vittima si è comportata in modo provocatorio e che, quindi, è co-responsabile per quanto accaduto. Questo aspetto rappresenta il cuore del fenomeno che affronteremo in questo contributo, il victim blaming, ossia la tendenza a biasimare le vittime e ad attribuire loro - almeno in parte - la responsabilità della violenza subìta. Facendo leva su false credenze si collegano erroneamente elementi del contesto – come appunto l’abbigliamento della vittima o il suo consumo d’alcol – all’idea che la vittima stessa sia responsabile, del tutto o in parte, di quanto avvenuto (Kent, 2003).
Il concetto di victim blaming è stato introdotto nel 1971 dallo studioso William Ryan per indicare la tendenza diffusa ad attribuire alle persone in condizioni di svantaggio economico la responsabilità per la loro indigenza, alimentando il pregiudizio verso le singole persone e sottostimando così le cause strutturali delle diseguaglianze economiche. Circa un decennio più tardi, quando la violenza di genere viene riconosciuta come una questione sociale rilevante, il victim blaming attira l’attenzione delle scienze sociali (per una rassegna si vedano, Penone & Spaccatini, 2019; Spaccatini & Pacilli, 2019). Da un punto di vista psicologico, l’attribuzione di biasimo alle vittime è definibile come un errore di percezione, ossia un giudizio errato formulato da chi percepisce la situazione. La psicologia sociale si è ampiamente interrogata sul modo in cui le persone interpretano il mondo sociale, fornendo prove di come, di fronte alla grande complessità della realtà che ci circonda e all’impossibilità di poter analizzare attentamente ogni stimolo, utilizziamo un pensiero automatico e inconsapevole per formare rapidamente un’impressione su persone o situazioni, che però non sempre è accurato (e.g., Hilbert, 2012; Janoff-Bulman et al., 1985). Questo pensiero porta a formulare un giudizio sulla base delle poche informazioni disponibili e a colmare le lacune conoscitive attraverso le esperienze precedenti, i valori personali e le credenze socialmente diffuse, che diventano, quindi, una lente attraverso cui interpretare il mondo sociale. Questo si può verificare anche quando valutiamo episodi di violenza di genere. Colmiamo così la mancanza di informazioni sfruttando le (false) credenze e gli stereotipi diffusi a livello sociale rispetto alla violenza - come appunto l’associazione tra la sensualità dell’abbigliamento e l’idea che la vittima se la sia cercata - arrivando così a percepire la vittima come responsabile per la vittimizzazione subita (Penone & Spaccatini, 2019). Gli episodi di victim blaming non sono delle eccezioni ma un fenomeno sistemico, quando ci approcciamo alla violenza di genere. Numerosi sono i casi di violenza sessuale in cui i media indugiano e indagano su elementi scollegati dalla responsabilità per la violenza subìta, ad esempio, chiedendosi o chiedendo alle vittime cosa indossassero, se avessero bevuto, se avessero opposto resistenza in modo chiaro ed inequivocabile.
Da due recenti indagini condotte in Italia (Action Aid, 2023; ISTAT, 2019) emerge come più del 20% delle persone intervistate creda che le donne possano provocare una violenza sessuale mostrando un abbigliamento o un comportamento provocante, circa il 15% che le donne che hanno subìto una violenza sotto l’effetto di sostanze, alcoliche o stupefacenti, siano responsabili per quanto accaduto e che tra il 39% (Istat, 2019) e il 78% (Action Aid, 2023) crede che una donna può sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo desidera. Il victim blaming oltre ad essere la prima causa della mancata denuncia delle violenze subite, è considerato una delle possibili forme di vittimizzazione secondaria, ossia un’ulteriore vittimizzazione, successiva a quella primaria subìta dall’aggressore, che assume la forma dello screditamento, della mancanza di supporto e dell’attribuzione di colpa da parte di istituzioni, media e persone che circondano la vittima (Ullman, 1996; Vonderhaar & Carmody, 2015).
Il victim blaming è stato oggetto di numerosi studi e tra gli aspetti indagati, le ricerche si sono concentrate sulla funzione di rassicurazione e sulla funzione di legittimazione del victim blaming. Entrambe sono funzioni difensive che portano a interpretare in modo strategico l’episodio di violenza anche grazie a sistemi di credenze, come le credenze in un mondo giusto, il sessismo ambivalente e i miti dello stupro, che prenderemo di seguito in esame.
La funzione di rassicurazione del victim blaming
Biasimare le vittime può rassicurare le persone facendole sentire meno vulnerabili rispetto alla possibilità che qualcosa di brutto possa accadere loro. Una delle teorie più utilizzate per studiare il victim blaming è la Teoria del Mondo Giusto (Lerner, 1980). Secondo questa teoria, le persone hanno bisogno di percepire il mondo come un posto giusto e prevedibile, in cui le cose terribili, dolorose e spiacevoli accadono solo a chi se le merita. Il fatto che una persona innocente sia vittima di un episodio violento minaccia queste credenze. Per poter continuare a credere che il mondo sia giusto, le persone operano, inconsapevolmente, una distorsione nell’interpretare la situazione. In particolare, attribuendo la colpa alle vittime sulla base di loro caratteristiche come, ad esempio, l’abbigliamento o il consumo di alcol, le persone, da un lato, si convincono che le cose brutte accadono solo a chi se l’è andate a cercare e, dall’altro, deducono come ci si deve comportare per evitarle (Bieneck & Krahè, 2011; Maruna & Mann, 2006; Strömwall et al., 2013).
La funzione di legittimazione dello status quo
Un’altra funzione del victim blaming è di natura psicosociale ed è volta a legittimare lo status quo, ossia a mantenere un’organizzazione della società permeata dalle diseguaglianze di genere che operano a svantaggio delle donne. In questo senso, il victim blaming è un potente strumento per confinare le donne in ruoli stereotipici e subalterni. Infatti, il victim blaming può esser considerato una ritorsione inflitta alle donne che non rispettano i ruoli stereotipici. Allo stesso tempo, proprio la paura di esser biasimate in caso di violenza porta le donne a conformarsi agli stereotipi e ruoli di genere. Prove di questa funzione sono fornite dalle numerose ricerche che hanno analizzato la relazione tra tendenza a biasimare le vittime di violenza e l’interiorizzazione di sistemi di credenze che sostengono un’organizzazione della società basata su una gerarchia di genere, come ad esempio il sessismo. Le ricerche che si sono concentrate sul sessismo hanno adottato come cornice teorica la teoria del sessismo ambivalente (Glick & Fiske, 1996), secondo la quale il sessismo è composto da due dimensioni tra loro complementari, dette sessismo ostile e sessismo benevolo (per una rassegna, Cinicola, 2015). Il primo indica una serie di atteggiamenti esplicitamente negativi di antipatia e ostilità verso le donne, soprattutto verso quelle che non si conformano ai ruoli stereotipici. Da questa prospettiva, le vittime di stupro sfrutterebbero il loro fascino a scapito degli uomini per poi trarre vantaggio (ad esempio, denaro e potere) dalla denuncia di vittimizzazione (Yamawaki et al., 2007). In linea con questa ipotesi, è stato dimostrato che le persone con un alto livello di sessismo ostile tendono a minimizzare la gravità della vittimizzazione e a mettere in dubbio la credibilità delle vittime, ritenendo che esagerino nel riportare sofferenza esperita e il livello di efferatezza della violenza subita (Yamawaki et al., 2007). Il sessismo benevolo, invece, indica un insieme di atteggiamenti paternalistici, apparentemente positivi, che considerano le donne, soprattutto quelle che aderiscono ai ruoli stereotipici, come creature meravigliose e delicate da proteggere. Le ricerche hanno mostrato che le donne che violano le aspettative circa i comportamenti stereotipicamente appropriati per loro, ad esempio uscendo da sole di sera con uomini, e subiscono violenza, agli occhi di chi ha interiorizzato il sessismo benevolo perdono il loro status di “brave ragazze” innocenti e meritevoli di cura e protezione e, di conseguenza, vengono considerate maggiormente responsabili della vittimizzazione subita (Abrams et al., 2003; Viki et al., 2004). Quindi il sessismo ambivalente è in relazione con un atteggiamento di svalutazione delle vittime: il sessismo benevolo favorisce l'attribuzione della colpa alla vittima di stupro, il sessismo ostile mette a rischio la credibilità della vittima. Strettamente collegati al sessismo e che favoriscono la legittimazione dello status quo troviamo i miti dello stupro, un insieme di credenze e convinzioni su come dovrebbe essere una violenza sessuale e come dovrebbero essere e comportarsi le vittime e gli aggressori (Burt, 1980; Lonsway & Fitzgerald, 1994; Pacilli, 2014). La peculiarità dei miti dello stupro è che funzionano da copioni mentali che influenzano, distorcendola, la percezione dei casi di stupro (Gerger et al., 2007). Esistono due categorie di miti dello stupro. La prima fa sì che si neghi che l’episodio sia violenza attraverso una definizione molto ristretta di cosa può essere considerato uno stupro, riconoscendo come stupro solo episodi estremi. L’aggressore, ad esempio, può essere solo una persona sconosciuta alla vittima, la violenza avviene nelle zone malfamate e isolate delle città, solitamente di notte e prevede un’efferata violenza da parte dell’aggressore che lascia segni ben visibili sul corpo delle vittime (Peterson & Muehlendhard, 2004). Questa definizione rigida e limitata fa sì che episodi di violenza sessuale che si verificano in ambiente domestico non siano riconosciuti come violenze sessuali. Più le persone interiorizzano i miti dello stupro, più tendono a colpevolizzare la vittima (Basow & Minieri, 2011; Gerger et al., 2007), a sottovalutare la gravità della violenza (Newcombe et al., 2008) e a scoraggiare le vittime dal denunciare l’accaduto (Frese et al., 2004). Inoltre, gli effetti dei miti dello stupro si riscontrano anche sulle vittime stesse che faticano a riconoscere la violenza subita come stupro se quanto accaduto presenta caratteristiche diverse da quelle che rientrano nei miti dello stupro (Peterson & Muehlenhard, 2004). La seconda categoria entra in gioco quando non è possibile negare che l’episodio costituisca un caso di violenza e fa leva sulle caratteristiche delle vittime. In questi casi, i miti dello stupro servono a minimizzare e giustificare la violenza rintracciando nelle caratteristiche e/o nei comportamenti delle vittime delle prove per considerarle almeno in parte responsabili per la violenza subita. In tal senso, un elemento particolarmente potente nel trasformare la vittima in co-responsabile agli occhi dei/delle percipienti, è la sensualità dell’abbigliamento e dell’aspetto fisico delle vittime. La relazione tra aspetto fisico delle vittime e victim blaming emerge chiaramente dai casi sopra citati di Cork e Palermo ed è incarnata nel luogo comune socialmente accettato per il quale una donna vittima di violenza sessuale se vestita in modo sensuale al momento della violenza se la sia andata a cercare provocando l’aggressore con un atteggiamento seducente. Al di là dei casi di cronaca, questo legame è stato confermato da un numero crescente di ricerche condotte sul fenomeno dell’oggettivazione sessuale (si veda glossario), fenomeno che consiste in una riduzione delle donne al loro corpo e alla gradevolezza e all’utilità sessuale dello stesso, a discapito della loro personalità e umanità (Fredrickson & Roberts, 1997; Loughnan & Pacilli, 2014; Pacilli, 2014). In particolare, è stato dimostrato come le vittime di violenza sessuale vestite in modo sensuale vengono considerate come maggiormente responsabili e in grado di soffrire in misura minore per la violenza subita rispetto a donne che non indossavano abiti sensuali (Loughnan et al., 2013; Pacilli et al., 2017; Spaccatini et al., 2019; 2023; Workman & Freeburg, 1999). Recenti studi condotti in Italia dal nostro gruppo di ricerca hanno mostrato come il legame tra oggettivazione sessuale e attribuzione di biasimo non riguardi solo i casi di forme estreme di violenza di genere, come appunto la violenza sessuale, ma che, anzi, si manifesti anche di fronte a forme più sottili e meno efferate di violenza di genere. Nello specifico, da questi studi è emerso che le vittime di molestie di strada (Spaccatini et al., 2019) e di molestie online (Spaccatini et al., 2023) vengono biasimate in misura maggiore rispetto alle vittime con un aspetto non sessualizzato. Inoltre, la sensualità dell’abbigliamento delle vittime diventa negli occhi di chi percepisce un’attenuante per gli aggressori, infatti le persone tendono a considerarli meno responsabili per una violenza agita quando la vittima ha un abbigliamento sensuale rispetto a quando non indossa tale abbigliamento (Bernard et al., 2015). L'aspetto fisico delle vittime assume quindi un ruolo cruciale nella percezione della violenza di genere compromettendo il riconoscimento dello status di vittima sulla base della sensualità dell’abbigliamento che negli occhi di chi percepisce diventa una chiara prova di co-responsabilità e istigazione. Proprio per questo sono state proposte numerose iniziative per cercare di sfatare i miti intorno alla relazione tra abbigliamento e responsabilità per la violenza subita. Un esempio degno di esser menzionato è la mostra “What were you wearing?” progetto proposto nel 2013 da Jen Brockman Brockman e Mary A. Wyandt-Hiebert dell’Università dell’Arkansas e diffuso in Italia grazie al lavoro dell’associazione Libere Sinergie con il titolo di “Com’eri vestita?”. Si tratta di una mostra in cui vengono esposti capi di abbigliamento che le vittime indossavano al momento della violenza subita e che mira a contrastare il pregiudizio che la vittima avrebbe potuto evitare la violenza sessuale indossando abiti meno provocanti.
Abbiamo già visto in apertura del contributo come il timore di esser biasimate sia la prima causa della mancata denuncia degli episodi di violenza da parte delle vittime. Tuttavia, le possibili conseguenze del victim blaming non si limitano al silenziamento delle vittime ma si dispiegano su più livelli, da quello personale e interpersonale a quello sociale. Da un punto di vista sociale, il victim blaming è un fenomeno subdolo in grado di permeare anche i livelli istituzionali. Pensiamo al caso giudiziario di Cork sopra e numerosi altri casi, in cui le false credenze hanno influenzato avvocati/e, giudici, forze dell’ordine e professionisti/e che lavorano a contatto con le vittime, distorcendo il loro giudizio e conducendo a una sorta di processo alle vittime e non agli aggressori. Il fatto che tali pregiudizi si insinuino a livello istituzionale può, a sua volta, innescare e alimentare processi di legittimazione e vera e propria istituzionalizzazione del victim blaming (Spaccatini & Pacilli, 2019). Su un piano interpersonale, l’attribuzione di biasimo alle vittime può a sua volta influenzare il modo in cui le persone si comportano verso le vittime. Infatti, due recenti lavori del nostro gruppo di ricerca (Pagliaro et al., 2021; Spaccatini et al., 2023; per una rassegna si veda Pagliaro et al., 2020) hanno mostrato come considerare la vittima almeno in parte responsabile per la vittimizzazione subita porta a sua volta le persone a essere meno disponibili a prestare aiuto e supporto alla vittima stessa. Infine, su un piano personale, le reazioni negative come l’attribuzione di biasimo da parte delle persone a cui la vittima svela di aver subito una violenza (ad esempio, forze dell’ordine, famiglia e rete amicale) hanno un impatto negativo e significativo sul recupero e sul benessere psicofisico delle vittime stesse, come ad esempio problemi di uso e abuso di sostanze alcoliche, depressione e disturbo post traumatico da stress (Ullman & Siegel, 1995; Ullman et al., 2008). Esser bersaglio di biasimo, inoltre, porta le vittime a interiorizzare questa prospettiva su di sé e, quindi, ad auto-biasimarsi (Ullman & Najdowski, 2009, 2011). La tendenza a considerarsi colpevoli per quanto accaduto a sua volta è in grado di impattare negativamente la salute delle vittime, con la possibilità di manifestare disturbi come sintomi depressivi, ansia generalizzata, disturbo post traumatico da stress e bassa autostima (Janoff-Bulman, 1979; Sigurvinsdottir & Ullman, 2015).
L’obiettivo del presente contributo è stato quello di prendere in rassegna la letteratura psicosociale sul fenomeno del victim blaming, cercando di fare luce sulle sue caratteristiche, sulle sue funzioni e sui suoi effetti. Le ricerche hanno chiaramente mostrato come il victim blaming sia un fenomeno molto complesso, ben radicato a livello sociale grazie alle false credenze e ai pregiudizi che permeano la percezione della violenza di genere. Alla luce della capacità del victim blaming di insinuarsi, spesso subdolamente, nei giudizi formali e informali dei casi di violenza di genere, è necessario contrastare il fenomeno attraverso dei programmi di sensibilizzazione che mirino, in modo ampio a prevenire la violenza di genere e in modo più mirato a creare nelle persone la consapevolezza di come false credenze e pregiudizi possano permeare, anche e soprattutto a un livello inconsapevole, i giudizi delle persone innescando meccanismi di svalutazione e stigmatizzazione delle vittime di violenza di genere. Il percorso di costruzione di tale consapevolezza, per esser davvero efficace, dovrebbe svilupparsi su più livelli. Un livello cruciale sul quale lavorare è sicuramente quello dei media e del modo in cui parlano di violenza di genere. Nel caso specifico del victim blaming, ad esempio, le narrazioni che indugiano e sottolineano caratteristiche, comportamenti passati o presenti o eventi di vita delle vittime, non fanno altro che alimentare la tendenza a collegare erroneamente quegli elementi all’idea che la vittima possa aver compartecipato all’episodio. Un altro livello di fondamentale importanza riguarda la formazione di professionisti/e che entrano in contatto con le vittime, come ad esempio personale medico, avvocati/e, giudici, forze dell’ordine. Una maggior consapevolezza da parte di queste figure professionali, è fondamentale per interrompere un circuito vizioso di continuo rinforzo e legittimazione del victim blaming e per permette alle vittime stesse di essere riconosciute come tali e ricevere il supporto necessario privo di stigmatizzazione e attribuzione di colpa. Infine, non di minore importanza sono gli interventi rivolti alla popolazione in generale. In tal senso, è indispensabile agire sia a partire dall’infanzia per ostacolare precocemente l’interiorizzazione di credenze stereotipiche sulla violenza, sia mettere a punto interventi rivolti a una popolazione adulta per cercare di disinnescare i meccanismi del victim blaming.
Oggettivazione sessuale. Processo psicologico per cui una persona viene considerata solo in funzione del suo corpo, il quale viene ridotto a un oggetto, disponibile per soddisfare il desiderio sessuale altrui. Si tratta di un fenomeno discriminatorio, una forma di negazione dell’umanità di chi ne è bersaglio, in quanto l’attenzione sulla gradevolezza del corpo avviene a discapito della personalità e umanità. Le ricerche, infatti, hanno dimostrato come un aspetto fisico e un abbigliamento sessualmente allusivo possano attivare una percezione oggettivante che porta a percepire le donne come meno umane (ad esempio, meno competenti e morali) dotate in misura minore di status morale e della capacità di soffrire.
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