In quest’ultimo anno, nel nostro paese, il dibattito sulla cosiddetta “Gender Theory” o “Teoria del Gender” si è fatto sempre più acceso e una preoccupazione crescente nei confronti di queste tematiche si registra soprattutto nei genitori (Grimoldi, 2015; Lalli, 2015). Un segnale dell’interesse attorno al “gender” è dato dalle ricerche su Google su questa parola. Come si evince dalla Figura 1, si rileva in Italia un primo incremento delle ricerche su Google di questa parola nel 2015, e più nello specifico a partire dai mesi di maggio/giugno. All’aumentare dell’interesse, spesso motivato dalla paura e dall’allarmismo, ci sembra però che non sia aumentata la conoscenza nelle persone di questo fenomeno.
Questo articolo nasce proprio dalla profonda convinzione che la diffusione della cultura scientifica psicologica sia fondamentale per la crescita culturale e sociale del nostro Paese. Una regola importante che deriva dal mondo scientifico, non solo quello psicologico, è quella di non confondere i fatti con le opinioni. Questo non significa che le opinioni non debbano contare nulla ma solo che devono il più possibile essere ancorate ai fatti e non confuse con essi (Bonfanti & Massarenti, 2015). Nello specifico, i fatti sono per noi, i risultati delle ricerche scientifiche e pertanto, l’obiettivo del nostro lavoro è quello di provare a fare chiarezza su questi temi adottando un approccio basato sull’evidenza scientifica.
Gender studies e teoria del gender: quali differenze?
Prima di entrare nel merito scientifico della discussione, è opportuno fare chiarezza su cosa si intende per “Gender studies” e cosa si intende per “Teoria del Gender”. Entrambi questi sintagmi sono accomunati dalla presenza della parola gender (che in Inglese si riferisce al genere sessuale), ma in realtà sono molto diversi l’uno dall’altro. Il primo è un ambito di indagine scientifica, volto a comprendere i ruoli di genere e i loro effetti nell’organizzazione della società e nelle scelte individuali. All’interno dei Gender Studies vi sono molte teorie di riferimento, anche molto diverse tra loro, che vengono testate con metodi empirici. Invece la Teoria del Gender non è presente nell’ambito accademico e rappresenta piuttosto l’idea che un mondo più ancorato alla sfera della confessione religiosa si è costruito rispetto ai Gender Studies, ipotizzando erroneamente che tali studi abbiano lo scopo ideologico e il progetto politico di cancellare i ruoli di genere in virtù di una Teoria del Gender ipoteticamente contraria al genere (O’Leary, 1997; diac. Girolamo Furio, 2011; vedi Garbagnoli, 2014 per una ricostruzione storica del movimento no-gender).
Nel corso degli ultimi anni, negli ambienti cattolici oltranzisti si è sviluppato un movimento di mobilitazione attorno a questa ipotetica teoria/ideologia gender. Questa prospettiva, definita anche come no-gender, spiega le differenze sociali e di ruoli tra uomini e donne con le differenze biologiche legate all’appartenenza sessuale, ed enfatizza la necessità che i ruoli di genere corrispondano inequivocabilmente ai sessi. Le minacce a questa visione sono molteplici: negli attuali sviluppi della società civile, alla famiglia tradizionale si affiancano molteplici configurazioni familiari, dovute per esempio alle famiglie allargate in cui i ruoli genitoriali sono ridefiniti sulla base dell’allargarsi delle famiglie in seguito a separazioni e nuove unioni, oppure alle più infrequenti ma contemplate ipotesi di famiglie omoparentali. I ruoli di genere tradizionali sono minacciati anche da posizioni sociali e lavorative sempre più attive e prominenti che le donne stanno assumendo nella società, promosse anche da politiche di pari opportunità. La proporzione di donne occupate sta infatti aumentando, e la disparità di retribuzione sta seppur lentamente diminuendo. Tutti questi cambiamenti sono vissuti come una minaccia ai valori tradizionali del nostro paese, e stanno dando luogo a conseguenti azioni di protezione di tali valori.
È interessante osservare dunque che questa teoria del gender non trova alcun riscontro né divulgazione nell’ambito scientifico che viene paradossalmente criticato per sostenere un’ideologia. La complessità e l’articolazione delle evidenze scientifiche nel corso della storia e attraverso vari laboratori di ricerca non lascia in alcun modo pensare che le ricerche siano manipolate da un’unica ideologia sottostante, altrimenti avremmo sempre e solo dati coerenti e in una direzione univoca. Per esempio all’interno dell’approccio filosofico femminista troviamo una divisione tra filoni di studi che storicamente sostengono ed enfatizzano le differenze di genere, e filoni che invece le minimizzano (Hare-Mustin & Marecek,1988). È altrettanto opportuno segnalare come gli allarmisti della Teoria del Gender mettano in uno stesso calderone una serie di ingredienti molti diversi tra loro: il sesso biologico, l’identità di genere, l’orientamento sessuale, il ruolo di genere. Cerchiamo di fare chiarezza, descrivendo ciascuna di queste dimensioni (APA, 2012):
Sesso biologico: si riferisce allo status biologico di una persona ed è di solito categorizzato come maschio, femmina o intersex. Sono numerosi gli indicatori del sesso biologico, quali i cromosomi sessuali (XX per le femmine e XY per i maschi), le gonadi, gli organi riproduttivi interni ed esterni (genitali).
Genere: l’insieme di atteggiamenti e comportamenti ritenuti tipici dell’essere maschi o dell’essere femmine all’interno di una data cultura.
Identità di genere: l’identità personale secondo cui ci percepiamo come maschi o femmine (frequentemente combacia con il sesso biologico, ma non sempre1)
Orientamento sessuale: la preferenza affettiva e/o sessuale di partner del proprio o dell’altro sesso. La divisione in eterosessualità e omosessualità è una semplificazione, essendo la lista di categorie in cui l’orientamento sessuale può essere catalogato molto lunga e non tutti si riconoscono in una sola delle categorie esistenti (Kinsey, Pomeroy, Martin, & Gebhard, 1953).
Ruolo di genere: il ruolo che assumiamo nella società in virtù della nostra appartenenza di genere. Per esempio, nella nostra società le donne hanno un ruolo sociale di cura dei figli, mentre gli uomini sono responsabilizzati nel mantenimento economico della famiglia. Questi ruoli sono socialmente definiti e quindi si modificano in linea con le differenze culturali di riferimento.
I “Gender studies” (o studi sul genere) sono un’area di studi molto ampia che attraversa numerose discipline, dalla storia, alla letteratura, alla filosofia fino alla psicologia. Per quanto riguarda la psicologia sociale, le ricerche che possono rientrare nella categoria dei Gender studies, si sono focalizzate per lo più su uno solo degli aspetti prima elencati, ovvero sui ruoli di genere, definiti dalle norme descrittive e prescrittive che la società propone alle persone in quanto uomini e donne. Queste norme sono molte, e definiscono la sfera pubblica e quella privata. Propongono codici di condotta (si veda il galateo), di abbigliamento (nella maggior parte dei paesi occidentali le donne possono indossare le gonne, gli uomini no), ruoli famigliari (le madri sono più frequentemente in regime part-time e dedicano mediamente un maggior numero di minuti del loro giorno nella cura dei figli rispetto ai padri) e anche scelte personali (come la scelta della tipologia di studi da intraprendere e di conseguenza le professioni). È interessante notare che questi ruoli influiscono in modo profondo sulla vita delle persone, fino a rendere alcuni disagi psicologici più probabili. Per esempio l’anoressia è più diffusa tra le donne, ed è legata ad esperienze di oggettivazione fortemente associate ai ruoli di genere (per un lavoro meta-analitico cfr. Grabe, Ward, & Hyde, 2008).
Le norme che prescrivono come devono essere e cosa devono fare le persone sulla base della loro appartenenza sessuale, affondano le proprie radici nei tradizionali stereotipi di genere, che prevedono caratteristiche diverse per uomini e donne, in particolare le donne sono stereotipicamente più gentili, amorevoli e accudenti, mentre gli uomini sono stereotipicamente più competenti, dinamici e decisi (Eagly, & Steffen, 1984; Heilman, 2001).
Quali risposte per quali domande?
Per dare avvio a questo lavoro, abbiamo chiesto a 20 giovani ragazzi e ragazze di scrivere quali fossero secondo loro le domande chiave su questo tema, a cui la scienza dovrebbe dare delle risposte e abbiamo identificato 10 principali questioni, che presentiamo di seguito.
1) Quando si sviluppa l’identità di genere e quando nascono i ruoli di genere?
L’identità di genere si sviluppa prima ancora dell’ingresso alla scuola primaria. A due anni i bambini iniziano già a definirsi bambino e bambina (Kohlberg & Ullian, 1974). A 5 anni i bambini hanno appreso molto bene l’aspetto prescrittivo dell’appartenenza di genere, sapendo dire chiaramente come si dovrebbe comportare un bambino e come si dovrebbe comportare una bambina (Martin & Ruble, 2004) e con quali giochi la gente si aspetta che giochi un bambino (trattori e costruzioni) e con quali una bambina (bambole e cucinette) (Raag & Rackliff, 1998). Alcuni studi mostrano tali capacità di discriminazione già a partire dai 3 anni e che tale categorizzazione è presente nei bambini anche qualora i genitori non credano nei ruoli di genere stereotipati (Freeman, 2007). Questa rigidità dei figli nonostante la flessibilità dei genitori può essere spiegata come una rigidità cognitiva tipica di quella fase dello sviluppo in cui di solito i bambini sono molto severi nell’applicazione delle regole che imparano, ma mostra anche che la regola sociale è stata appresa, suggerendo quindi un ruolo chiave del contesto extra-familiare nell’acquisizione delle norme di genere.
2) I ruoli di genere sono influenzati dalla cultura?
La risposta a questa domanda è affermativa. L’aspetto prescrittivo delle norme di genere è cambiato negli anni, ma solo per le donne che ora hanno caratteristiche più stereotipicamente maschili. Invece per gli uomini la situazione è rimasta più statica (Twenge, 1997). Questo si riproduce anche nelle evoluzioni delle carriere professionali: mentre per le donne è aumentato nel corso del tempo l’accesso ai ruoli professionali tradizionalmente maschili, non è vero il contrario per gli uomini che assumono ancora poco i ruoli tradizionalmente femminili (Croft et al., 2015).
Probabilmente uno dei miti pseudoscientifici più resistenti nel corso del tempo riguarda le differenze psicologiche fra uomini e donne. Basti pensare al testo di John Gray “Gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere” in cui l’entità delle differenze fra uomini e donne era descritta in termini così drammatici da essere equiparata a quella di persone che provengono da pianeti diversi. Questo testo ha venduto più di 30 milioni di copie in tutto il mondo ed è stato tradotto in 40 lingue (Hyde, 2005). Il successo di questo libro ci dice dunque che le differenze di genere vendono. Ma quali sono le evidenze scientifiche a riguardo? Una studiosa americana, Janet Hyde, nel 2005 ha preso in rassegna ben 46 meta-analisi (per un totale di 7044 studi), mostrando che rispetto a variabili cognitive (es. abilità matematiche, abilità spaziali, di ragionamento astratto etc.), variabili relative alla comunicazione verbale e non verbale, variabili sociali o di personalità (ad es. aggressività, stile di leadership, atteggiamenti e comportamenti sessuali), variabili relative al benessere psicologico (ad es. soddisfazione di vita, autostima), variabili relative a comportamenti motori (velocità di lancio, distanza di lancio, capacità di salto), le differenze fra uomini e donne erano di entità minima e riguardavano esclusivamente gli atteggiamenti rispetto a comportamenti sessuali e variabili relative a comportamenti motori. Interessante, fra l’altro un recente studio condotto presso l’Università di Tel Aviv da Daphna Joel e colleghi (2015) dal suggestivo titolo “il sesso oltre i genitali: il mosaico del cervello umano” in cui dall’analisi di circa 1.400 cervelli di uomini e donne si evince che non è possibile parlare di cervelli maschili e di cervelli femminili ma che i cervelli delle persone sono comparabili a dei mosaici dove la variabilità individuale è molto più alta di quella di genere.
3) I Ruoli di Genere Tradizionali Sono Vantaggiosi o Svantaggiosi per gli Individui?
La risposta è svantaggiosi. Tutti gli studi che hanno indagato il ruolo degli stereotipi di genere e la loro attivazione hanno tipicamente riportato degli svantaggi per gli individui, come per esempio una performance peggiore in compiti scolastici e scelte di vita più limitate. Un filone di studi sulla “minaccia dello stereotipo” mostra che attivare lo stereotipo di genere fa peggiorare la performance in matematica delle donne (Ambady, Shih, Kim, & Pittinsky, 2001; Muzzatti & Agnoli, 2007; Spencer, Steele, & Quinn, 1999; Walsh, Hickey, & Duffy, 1999). L’aspetto interessante di questi studi è che lo stereotipo può essere attivato anche in ambiti apparentemente irrilevanti per il compito. Per esempio, Davies, Spencer, Quinn e Gerhardstein (2002) hanno mostrato ad alcuni studenti una pubblicità di un detersivo. Per metà degli studenti la pubblicità includeva solo il fustino di detersivo. Per l’altra metà nella pubblicità si vedeva una donna che offriva a suo marito le camicie lavate e stirate, in linea con i ruoli di genere secondo cui la donna si occupa delle faccende di casa. I ragazzi sono stati assegnati in modo causale alle due pubblicità e, dopo aver osservato il messaggio promozionale, hanno svolto un test con domande che misuravano le abilità verbali e quelle matematiche. Per i ragazzi maschi non è emersa alcuna differenza legata al tipo di pubblicità. Invece le ragazze hanno evitato le domande di matematica dopo aver visto le pubblicità stereotipiche. In uno studio successivo, le ragazze hanno dichiarato minore interesse e aspirazione a intraprendere in futuro professioni di carattere scientifico dopo aver visto le pubblicità stereotipiche.
4) Quali sono le conseguenze dell’essere esposti in ambito scolastico a progetti che discutono i ruoli di genere?
Come ci ricordano O’Flaherty e Fisher (2008), le riserve sul fatto che l’educazione scolastica parli di ruoli di genere o di omosessualità ricorrono nel corso della storia. Questo è successo per esempio in Polonia nel 2007, in UK nel 1988 (Local Government Act e nel resto del paese nel 2003), in Scozia nel 2000, e naturalmente è del tutto attuale nel dibattito Italiano e nelle legislature di molti paesi nel mondo, in cui l’omosessualità è definita illegale o addirittura un atto criminale, e in quanto tale punita, in alcuni stati persino con la pena di morte.
L’educazione sessuale è un fondamento cruciale in un paese democratico, in cui vogliamo che i giovani possano essere liberi di scegliere se, quando e con chi avere rapporti sessuali, e se, quando, e con chi avere dei figli. La libertà in queste scelte è strettamente vincolata alla consapevolezza, un obiettivo di crescita il cui raggiungimento può essere facilitato dall’educazione. Uno dei principi base dei diritti umani (previsto anche nella nostra costituzione), è la condanna alla discriminazione in base al sesso o all’orientamento sessuale. Prevedere un’educazione sessuale rivolta solo a ragazzi/e eterosessuali sarebbe estremamente discriminatorio ma anche dannoso per la società. Soprattutto date le statistiche secondo cui le persone omosessuali sono più a rischio di subire violenza sessuale (Herek, 2009).
Gli studi sulle conseguenze dell’educazione sessuale per ora sono scarsi. Abbiamo invece evidenza sul fatto che dare informazioni che mettono in dubbio i ruoli e gli stereotipi di genere possa avere dei risvolti positivi. Per esempio spiegare agli studenti che non ci sono differenze tra maschi e femmine nelle abilità matematiche, può eliminare gli effetti negativi che questi stereotipi hanno per esempio sulla performance delle ragazze in matematica (Johns, Schmader, & Martens, 2005).
Good, Aronson, e Harder (2008) hanno svolto uno studio sul campo, indagando la performance in un compito in corsi avanzati di matematica (i cui studenti spesso poi intraprendono carriere in matematica e scienze). Il compito misurava le abilità matematiche ed era presentato come tale. A metà degli studenti veniva offerta una specificazione ulteriore, cioè che in compiti di questo tipo non ci sono differenze di genere. In linea con gli studi precedenti, definire il compito come diagnostico delle abilità matematiche è stato sufficiente per attivare la minaccia dello stereotipo e creare le differenze di genere: le studentesse infatti ebbero un punteggio più basso rispetto ai loro compagni maschi. Quanto però alla definizione che attiva la minaccia dello stereotipo si aggiungeva la specificazione che lo nega (“è un compito di matematica e in compiti di questo tipo non ci sono differenze di genere”), il punteggio delle ragazze non differiva da quello dei ragazzi. Questo studio mostra con chiarezza che se a scuola si stesse più attenti non solo a non rinforzare gli stereotipi di genere, ma a negarli esplicitamente, alcune differenze di genere legate alla performance scolastica scomparirebbero, con vantaggio per il gruppo stereotipicamente discriminato (le studentesse), e senza svantaggio per il gruppo stereotipicamente avvantaggiato (gli studenti).
5) Quali sono i contributi biologici e quelli ambientali all’orientamento sessuale?
Una domanda molto frequente è se gay si nasce o si diventa. Alcuni studi sui gemelli hanno indagato in modo scientifico questo quesito, a cui la scienza sembra però non essere ancora in grado di dare una risposta definitiva. Mustanski, Chivers, e Bailey (2002) hanno analizzato gli studi prodotti tra il 1992 e il 2002 e hanno concluso che la teoria che sembra predire con più accuratezza l’orientamento sessuale (soprattutto degli uomini) sia quella neuro-ormonale secondo la quale entrano in gioco fattori quali la psiconeuroendocrinologia, lo stress prenatale, le asimmetrie cerebrali, la neuro-anatomia, le emissioni oto-acustiche e l’antropo-metrica, mentre il ruolo genetico e quello ambientale sarebbero trascurabili. Un crescente numero di studi sta indagando l’ipotesi che il numero di fratelli maggiori maschi sia un possibile fattore che aumenta la probabilità di avere un orientamento omosessuale nei successivi figli maschi. Confrontando i risultati di 14 studi, per un totale di 10,143 partecipanti maschi, lo studio meta-analitico di Blanchard (2004) conclude che in effetti il numero di fratelli (e non sorelle) maggiori (e non minori) sembra essere un predittore dell’omosessualità. Perché? Ancora gli studi non riescono a fornire un’interpretazione certa, un’ipotesi al momento dibattuta è che il sistema immunitario della madre sviluppi una progressiva immunizzazione agli antigeni maschili, e che questa immunizzazione abbia degli effetti sullo sviluppo del feto. Quindi secondo questo approccio, l’orientamento sessuale si definirebbe già in fase fetale (Rahaman, 2005). In realtà, è opportuno sottolineare come la scienza oggi non ha ancora una risposta definitiva e chiara a questa domanda e ogni orientamento sessuale è talmente complesso che individuare un solo fattore che può esserne completamente responsabile è del tutto improbabile (Lingiardi, 2015).
6) Quando si sviluppa l’orientamento sessuale?
La consapevolezza del proprio orientamento sessuale è un fenomeno complesso, che subisce le influenze del contesto socio-culturale di riferimento (Figura 3).
Il processo di costruzione della consapevolezza è più complesso per l’orientamento omosessuale, in quanto deviante dalla maggioranza numerica e sociale, e in quanto ancora stigmatizzato. Studi recenti hanno cercato di definire l’età in cui la consapevolezza dell’orientamento omosessuale inizi a delinearsi, indicando che intorno agli 8-9 anni vengono esperite le prime sensazioni di attrazione nei confronti di persone dello stesso sesso, ma possono passare almeno 10 anni (cioè verso i 18 anni) prima che queste attrazioni si delineino in una chiara definizione del proprio orientamento sessuale (Savin-Williams & Diamond, 2000). È importante notare che la maggior parte degli studi si sono focalizzati sull’omosessualità maschile, e alcuni studi più recenti mettono in dubbio che l’omosessualità femminile abbia caratteristiche speculari.
7) L’omosessualità è una patologia?
No. Non è una patologia, e quindi non va curata. Nel passato si riteneva lo fosse, ma la comunità scientifica dal 1974 ha eliminato l’omosessualità dal manuale diagnostico per i disturbi mentali e non compare nella sua versione più attuale (DSM-V, 2013), riconosciuto a livello internazionale per la classificazione delle malattie mentali. Inoltre le associazioni di psicologi sia internazionali (American Psychological Association, 2009) sia nazionali (Associazione Italiana Psicologi e Ordine degli Psicologi) hanno coralmente bandito le terapie riparative o di conversione (Lingiardi, 2012).
8) Che differenza c’è tra omosessuali ed eterosessuali in termini di competenze genitoriali?
Nel 2004, l’American Psychological Association ha adottato una mozione su “Orientamento sessuale, genitori e bambini” in cui partendo dalla premessa che l’omosessualità non è un disordine psicologico, stabilisce sulla base delle evidenze empiriche fino ad allora prodotte che l’orientamento sessuale dei genitori non influisce sulle competenze genitoriali degli stessi (APA, 2004). In realtà va rilevato che dalle ricerche condotte in questo ambito emerge che, se una differenza c’è, questa è relativa al fatto che genitori gay e lesbiche tendono a comunicare più efficacemente, a gestire i problemi familiari e a dividersi i ruoli all’interno della famiglia in modo più equo, a mostrare maggiore disponibilità e rispetto nei confronti dell’autonomia dei figli (per una rassegna vedasi Biblartz & Stacey, 2010). Anche nel contesto italiano, recentemente Baiocco e colleghi (2015) hanno mostrato che genitori omosessuali rispetto a quelli eterosessuali presentavano livelli più alti di flessibilità, capacità di comunicazione e soddisfazione di coppia (per una disamina esaustiva e aggiornata delle ricerche sull’argomento vedasi Taurino, 2016). A questa domanda si può trovare risposta anche grazie alle due domande che seguono.
9) L’esposizione a modelli familiari non tradizionali influenza l’identità di genere e l’orientamento sessuale?
Si ritiene comunemente che crescere con genitori omosessuali possa compromettere lo sviluppo dei figli in termini di identità di genere e orientamento sessuale. Studi singoli e metanalisi condotti in questo senso indicano invece, che non ci sono differenze attribuibili al tipo di famiglia di appartenenza rispetto all’identità di genere e all’orientamento sessuale (Allen & Burrell, 1996, 2002; Bos & Sandfort 2010; Patterson, 2000). Va anzi evidenziato che i bambini di coppie lesbiche, rispetto ai bambini di coppie eterosessuali, percepiscono meno pressioni rispetto all'adesione a prescrizioni comportamentali fortemente ancorate agli stereotipi di genere (Bos e Sandfort, 2010).
Non ci sono dunque aspetti disfunzionali rispetto alla strutturazione dell'identità di genere nei figli cresciuti da genitori omosessuali, né si registra nei figli di genitori omosessuali rispetto ai figli di genitori eterosessuali una maggiore probabilità di diventare omosessuali da adulti. Bisogna precisare però, rispetto a quest’ultimo punto, che è importante non cadere nella credenza stereotipica che l’omosessualità sia una malattia (vedasi domanda 7), un “problema” rispetto al quale è necessario accertarsi che i figli che crescono in nuclei omogenitoriali non siano esposti per non esserne “contagiati”.
10) Crescere in una famiglia con genitori dello stesso sesso provoca influenze negative sul percorso evolutivo dei figli?
La maggior parte delle ricerche condotte su nuclei familiari con genitori dello stesso sesso sono state realizzate adottando un’ottica comparativa tra famiglie con genitori eterosessuali e famiglie con genitori omosessuali, allo scopo di rilevare gli eventuali aspetti di diversità specifici dell’omogenitorialità, in termini di ricadute sulla salute e sullo sviluppo dei bambini (Patterson 2000). Dalle ricerche condotte è emerso che il benessere dei figli non è determinato dalla struttura familiare, ma piuttosto dalla qualità dei processi e delle relazioni interne ai nuclei familiari in oggetto e che le competenze genitoriali non sono determinate né dall'identità di genere, né dall’orientamento sessuale dei genitori (Stacey & Biblarz 2001; Stacey & Biblarz 2010; Patterson 2006; Fedewa, Black, & Ahn, 2015). Nelle ricerche (studi singoli e metanalisi) sinora condotte, non sono state riscontrate differenze tra i bambini di coppie di genitori dello stesso sesso e figli di coppie eterosessuali rispetto al benessere psicologico, alla qualità delle relazioni con i pari, alla regolazione sociale, a problemi comportamentali e allo sviluppo emotivo (si vedano le metanalisi di Allen & Burrell, 1996 e Crowl, Ahn, & Baker, 2008). Questi risultati, hanno trovato riscontro anche nelle ricerche condotte sui figli ormai adolescenti di coppie omosessuali e coppie eterosessuali: non sono state riscontrate, infatti, differenze statisticamente significative in merito a sintomi depressivi, andamento scolastico, autostima, uso e abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti, comportamenti criminali e/o devianti (Wainright, Russell, & Patterson, 2004; Wainright & Patterson, 2006). Una ricerca recente condotta in Olanda da Bos, Gartrell, Roeleveld & Guuske (2013) ha mostrato che i figli di 11-13 anni di coppie lesbiche tendevano a presentare rispetto a ragazzi della stessa età con genitori di sesso diverso punteggi più elevati rispetto ad una molteplicità di competenze civiche come agire in modo democratico, comportarsi responsabilmente da un punto di vista sociale e rispettare le differenze (sociali, religiose o culturali).
Conclusioni
Al di là delle specifiche tematiche oggetto del contendere quando si parla di Gender studies e della loro declinazione confessionale (Teoria/ Ideologia Gender), riteniamo che questo tipo di dibattito sia molto interessante per riflettere sullo statuto della psicologia come scienza. L’idea di una gerarchia delle scienze che vede le scienze fisiche al primo posto e le scienze umane e sociali all’ultimo è molto antica (Comte, 1830; Fanelli, 2010). Questa gerarchizzazione delle scienze mette spesso le persone nella condizione di disquisire su determinate tematiche relative, ad esempio, alla psicologia senza preoccuparsi di quello che le ricerche scientifiche dicono e di farlo più a cuor leggero di quanto non avvenga quando ci si inoltra in altri ambiti disciplinari.
Accanto a una considerazione diffusa della psicologia come una disciplina “parascientifica”, va tuttavia sottolineato l’impegno non ancora sufficiente di noi ricercatori nel divulgare i risultati delle ricerche che conduciamo e che conosciamo. Comunicare la scienza è invece estremamente importante. Il neuroscienziato americano David Eagleman (2013) ha individuato diversi motivi per cui è importante farlo, che ci sembrano molto adatti anche al tema che abbiamo affrontato in questo lavoro. Uno di questi motivi è il dovere di restituzione che ci vincola alla cittadinanza poiché, anche se indirettamente, quei cittadini finanziano i nostri esperimenti con le tasse che versano nelle casse dello stato. Un secondo motivo riguarda il fatto che, con le nostre competenze, possiamo incoraggiare il pensiero critico nelle persone comuni e nel dibattito pubblico promuovendo l’acquisizione di modelli cognitivi che ci insegnano a prestare un’attenzione diversa al modo in cui osserviamo e analizziamo i problemi e, per questo, ci impediscono di cadere in pericolose trappole cognitive (Legrenzi & Massarenti, 2015). Un altro motivo riguarda l’importanza di spiegare cosa è scienza e cosa non lo è. La scienza è sicuramente qualcosa che parte dalle intuizioni dei singoli e le fa avanzare e progredire ma questo avviene attraverso una profonda comprensione e tolleranza dell’incertezza. Non è detto (e forse non è possibile) che la scienza fornisca una risposta vera una volta per tutte, ma piuttosto la risposta che meglio si adatta a descrivere i fatti in un determinato momento.
Un ultimo, cruciale, motivo è che attraverso la comunicazione dei risultati delle ricerche è possibile contribuire al lavoro di chi legifera, sostenendo il loro operato attraverso l’offerta di conoscenze evidence based in merito alle decisioni politiche che riguardano la vita di tutti noi.
Note
1. La legge italiana prevede che ci sia questa incongruenza e che il tribunale approvi un cambio di identità (Legge 14 Aprile, 1982, n° 164)
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