Abbastanza equo? Il paradosso della disuguaglianza, la consapevolezza della disuguaglianza e la giustificazione del sistema

Autori/autrici: Carmen Cervone & Andrea Scatolon. Traduzione di Federica Spaccatini & Ilaria Giovannelli

Articolo originale: Fair Enough? The Inequality Paradox, Inequality Awareness, and System Justification

Link all'articolo originale: https://www.in-mind.org/article/fair-enough-the-inequality-paradox-ineq…

“Un ritratto della società: alcune persone sono ricche, altre sono povere ed è così che stanno le cose. Dopo tutto, le persone ricche hanno lavorato duramente per arrivare dove sono, e ogni persona con la giusta mentalità può fare lo stesso. Le persone povere, invece, non sono state capaci di gestire i propri soldi”. Apparentemente questo discorso non sembra fare una piega, poi però scopriamo che 26 persone possiedono esattamente la metà della ricchezza della popolazione mondiale. Siamo ancora convinti e convinte che il ragionamento iniziale funzioni? In questo articolo, vedremo come le persone percepiscono la diseguaglianza economica, come la razionalizzato e perché tendono a non fare nulla per contrastarla.

In un momento storico in cui le ideologie conservatrici acquistano consensi e le diseguaglianze sociali sono in aumento, anche la diseguaglianza economica cresce drammaticamente (Luttig, 2013). Attualmente la diseguaglianza ha raggiunto il suo picco più alto degli ultimi 40 anni (OECD, 2015). Basta pensare al fatto che dal 2015, l’1% della popolazione mondale possiede più ricchezza del restante 99% (Suisse, 2016). Le disparità economiche sono pervasive e danneggiano sia gli individui sia la società con questioni e problemi che spaziano dalla minore solidarietà e felicità (Alesina et al., 2004; Paskov & Dewilde, 2012), all’aumento del numero degli omicidi e degli episodi di violenza (Elgar & Aitken, 2010), fino alla perdita della biodiversità (Mikkelson et al., 2007). Infatti, i paesi con un livello più elevato di uguaglianza hanno punteggi più alti su molteplici indicatori di benessere, come la salute fisica e mentale, o le relazioni sociali (Wilkinson & Pickett, 2010).

Tuttavia, le ricerche hanno mostrato come una maggiore disuguaglianza non sia associata a una crescente domanda di ridistribuzione della ricchezza (Jost, 2017), anche se, come emerso dagli studi scientifici, una maggiore uguaglianza sarebbe un vantaggio per chiunque, indipendentemente dallo stato individuale o dalla ricchezza del paese (Wilkinson & Pickett, 2010). Di fronte a questo quadro, viene spontaneo chiedersi perché non ci sia una mobilitazione collettiva verso una maggiore uguaglianza, così come avviene per altre questioni, come ad esempio per il cambiamento climatico o la parità dei diritti.

La disuguaglianza come ideale

La risposta alla domanda sul perché non sempre le persone scelgano di mobilitarsi per raggiungere una maggiore uguaglianza non è né facile né certa. Per quanto sorprendente, una possibile risposta potrebbe contemplare il fatto che gli individui desiderino effettivamente la disuguaglianza. Ai partecipanti di uno studio condotto in America sono stati mostrati tre grafici a torta che descrivevano la distribuzione della ricchezza di ipotetici paesi: il primo grafico rappresentava una situazione di totale/elevata uguaglianza, il secondo di moderata disuguaglianza (come la Svezia) e il terzo di completa/elevata diseguaglianza (come gli Stati Uniti). Di fronte alla domanda in quale nazione avrebbero scelto di vivere, la maggior parte delle persone che ha preso parte alla ricerca ha indicato la seconda opzione, cioè quella con livelli moderati di disuguaglianza, esprimendo, così, il loro desiderio a vivere in un contesto caratterizzato da una certa dose di disparità tra gli individui. Inoltre, nel descrivere il loro mondo ideale, i partecipanti hanno indicato che avrebbero voluto che il quintile più ricco degli Stati Uniti possedesse circa il 32% della ricchezza totale, ossia più di tre volte la ricchezza che avrebbero desiderato invece per il quintile più povero (Norton & Ariely, 2011). Quindi, anche quando ai partecipanti veniva chiesto di immaginare un mondo ideale, desideravano una stratificazione sociale in cui le classi più ricche stavano in alto e le classi più povere in basso.

Diverse altre ricerche scientifiche hanno fornito risultati simili (Franks & Scherr, 2019; Norton et al., 2014; Norton & Ariely, 2013): le persone vogliono la “disuguaglianza” (Norton, 2014), cioè una società che sia meno disuguale della realtà, ma comunque strutturata gerarchicamente. Questo desiderio non riguarda solo la distribuzione del reddito, ma anche la ricchezza e il divario retributivo tra coloro che occupano posizioni dirigenziali e, ad esempio, gli operai e le operaie. A tal proposito, i partecipanti coinvolti in una serie di studi hanno dichiarato di desiderare un rapporto 7 a 1, ossia per ogni 1.000 dollari guadagnati da un/a operaio/a, un/a dirigente ne dovrebbe idealmente guadagnare 7.000 (Kiatpongsan & Norton, 2014; Norton, 2014).

Un elemento che porta le persone a preferire la “disuguaglianza” è il loro senso di equità. Sia nel mondo reale sia negli studi condotti in laboratorio, sono emerse alcune caratteristiche che portano una parte delle persone a pensare che alcuni individui meritino di più mentre altri di meno sulla base, ad esempio, degli sforzi compiuti, della loro moralità o delle loro abilità. Il senso di equità, che ha le sue radici evolutive nella cooperazione, porta dunque le persone a punire o premiare altri individui e a credere che la società dovrebbe riflettere queste caratteristiche individuali (Starmans et al., 2017).

Oltre all’equità e alla cooperazione, il supporto di una gerarchia sociale ha scopi evolutivi che sono rintracciabili nel regno animale. La maggior parte dei mammiferi, infatti, è organizzata in sistemi gerarchici. Presumibilmente, la gerarchia svolge una funzione di regolazione delle tensioni e della competizione per l’ottenimento di risorse attraverso segnali legati allo status, che sostituiscono combattimenti veri e propri (Sapolski, 2017).

Un’ulteriore prova a sostegno dell’origine evolutiva della tendenza a sostenere la gerarchia si rintraccia nell’attraenza e nella forza maschile. In tempi ancestrali, queste due caratteristiche segnalavano e aumentavano lo status, quindi, l’interesse personale portava gli individui a sostenere la gerarchia proprio perché favoriva la propria posizione. In realtà è così: i maschi più muscolosi e/o che si percepiscono più attraenti tendono ad avere un atteggiamento di maggior supporto per la gerarchia e tendono a essere meno egualitari (Price et al., 2011, 2015)

Tuttavia, il livello di disuguaglianza che le persone desiderano potrebbe ancora sembrare un'immagine idilliaca se confrontata con ciò che accade attualmente nei paesi di tutto il mondo. Eppure, nonostante ciò, singoli individui e intere società non sembrano impegnarsi in azioni collettive per raggiungere una maggiore equità, anche se storicamente hanno dimostrato che è possibile farlo. Basti pensare che 60 anni fa, negli Stati Uniti, il rapporto del divario retributivo tra coloro che occupavano posizioni dirigenziali e gli operai e le operaie era di 20 a 1, ossia quasi 20 volte inferiore a quello di oggi (Davis & Michel, 2019). Anche ancestralmente, le società di cacciatori-raccoglitori, cioè quelle società in cui il sistema economico si basava sulla caccia, pesca e raccolta, erano caratterizzate probabilmente da bassi livelli di disparità di ricchezza, poiché quest’ultima non poteva essere accumulata all'interno dei lignaggi (Kohler et al., 2017).

Lontano dagli occhi, lontano dal cuore: la tendenza delle persone a sottostimare la diseguaglianza

Oltre a quanto messo sopra in evidenza, una delle motivazioni che potrebbe spingere le persone a non considerare la diseguaglianza economica come un problema è la sua sottostima. Certamente, in media, le persone sono consapevoli dell'esistenza di un certo livello di disuguaglianza (Norton & Ariely, 2011). Ad esempio, alla domanda sulla percentuale della ricchezza totale posseduta da ciascun quintile della popolazione negli Stati Uniti, le persone americane hanno risposto che il 20% più ricco possiede più del resto della popolazione messo insieme, cioè più della metà della ricchezza totale del paese. Quello di cui però le persone non si rendevano conto è il fatto che la ricchezza posseduta dal quintile più ricco ammonta all'84% (Franks & Scherr, 2019; Norton & Ariely, 2011). Risultati simili sono emersi anche in altre ricerche in cui sono stati coinvolti partecipanti australiani (Norton et al., 2014) e giovani adolescenti (Arsenio & Willems, 2017). Questa inconsapevolezza delle persone non si limita solo alla distribuzione della ricchezza ma riguarda anche la stima del divario retributivo. In uno studio in cui sono state coinvolte persone provenienti da 16 nazioni (ad esempio, Israele, Danimarca e Australia) è stato chiesto ai/alle partecipanti di provare a indovinare quanto guadagnassero un amministratore delegato e un operaio. I risultati hanno messo in evidenza che, in tutti i paesi, la stima del rapporto era inferiore a quella reale. A tal proposito, ancora una volta, vale la pena citare il caso degli Stati Uniti: mentre le persone stimavano un rapporto di circa 30 a 1, ossia per ogni 1.000 dollari guadagnati da un operaio, immaginavano che un amministratore delegato ne guadagnasse 30.000, nella realtà le cose era molto diverse e il rapporto raggiungeva i 354 a 1 (per ogni 1.000 dollari guadagnati da un operaio, un amministratore delegato ne guadagnava 354.000) (Kiatpongsan & Norton, 2014).

Dai dati sopra esposti, sembra che la mancanza di consapevolezza sia il problema; se così fosse un aumento delle informazioni a disposizione delle persone dovrebbe essere la soluzione. A partire da questo assunto, la ricerca si è concentrata principalmente sulla correzione delle percezioni errate sulla disuguaglianza economica con l’obiettivo di spingere le persone a sostenere una migliore ridistribuzione delle risorse (Hauser & Norton, 2017). In uno studio di Hauser e colleghi (2016) condotto negli Stati Uniti, gruppi composti da cinque partecipanti hanno preso parte a un gioco sui beni pubblici. Ai giocatori e alle giocatrici veniva assegnato un reddito che rifletteva ciascun quintile americano, veniva chiesto loro di mettere insieme le risorse a disposizione e veniva data loro l’opportunità di punire e premiare le altre persone in gioco, se credevano che qualcuno avesse contribuito in misura maggiore o minore di quanto avrebbe dovuto. I risultati hanno mostrato che quando i partecipanti erano consapevoli del reddito degli altri giocatori e delle altre giocatrici, premiavano i più poveri e punivano i più ricchi (Hauser et al., 2016). Tali evidenze portano a pensare che avere informazioni (almeno nei contesti e nelle società simili agli Stati Uniti) possa essere la chiave del problema. Tuttavia la situazione non è così semplice; infatti, questa strategia sembra avere successo solo quando alla base di vi è un interesse personale/egoistico. Quando le persone si rendono conto che stanno sopravvalutando la propria posizione, cioè quando realizzano che sono più povere di quanto credevano, sostengono maggiormente la ridistribuzione rispetto a chi la sottovaluta, ossia rispetto a chi si accorge di essere più ricco di quello che pensava, soprattutto se di destra e convinto che la propria posizione nella distribuzione sia dovuta allo sforzo personale (Karadja et al., 2017). Questo risultato è in linea con i dati raccolti da altre ricerche che si sono concentrate sullo studio delle teorie sull'interesse personale: le persone saranno più disposte a tollerare, sostenere o rifiutare la disuguaglianza a seconda di ciò che favorisce la propria posizione (Curtis & Andersen, 2015). Il legame tra interesse personale e sostegno alla ridistribuzione è storicamente radicato e ha a che fare con i conflitti di interesse: gli uomini più forti, ad esempio, sostengono politiche allineate con gli interessi del proprio gruppo, così che mentre la forza fisica aumenta il sostegno alla ridistribuzione negli uomini poveri, vale il contrario per gli uomini ricchi (Petersen et al., 2013).

Tuttavia, ci sono alcuni aspetti degli atteggiamenti verso la disuguaglianza economica che non possono essere spiegati dal solo interesse personale. In effetti, sebbene sia vero che le persone di classe più agiate tendono a essere più tolleranti nei confronti della disuguaglianza e meno favorevoli alla ridistribuzione della ricchezza, le ricerche dimostrano che anche gli individui che rientrano nella cosiddetta classe operaia, cioè che hanno un reddito basso, possono sostenere uno status quo drammaticamente disuguale che non li avvantaggia in alcun modo (Jost, 2017). Certamente, queste persone non sono guidate dall'interesse personale.

Finché è giusto: le molte facce della giustificazione del sistema

Per comprendere il paradosso dell’atteggiamento verso la disuguaglianza economica, dobbiamo prima renderci conto che tale questione non riguarda i singoli individui ma le classi sociali. La posizione sociale che le persone occupano influenza il loro accesso al cibo, all'alloggio, all'istruzione, all'assistenza sanitaria e alle opportunità (Kraus et al., 2009). Quindi, la posizione sociale vincola in modo rilevante la vita delle persone e costituisce gran parte della loro identità. In effetti, il nostro status modella il modo in cui ci sentiamo, pensiamo e agiamo (Piff et al., 2018), e in una situazione caratterizzata da elevata disuguaglianza economica, le disparità tra ogni gradino della scala sociale diventano più aspre, più visibili e quindi più rilevanti (Wilkinson & Pickett, 2017). Per questo motivo, gli individui devono costantemente affrontare confronti sociali, anche quelli estremamente ingiusti. Questo può rivelarsi molto pesante per le persone. In effetti, l'idea che qualcosa di così rilevante per il proprio benessere dipenda da qualcosa di ingiusto o illegittimo genera incertezza e minaccia a livello esistenziale gli individui (Kay et al., 2009; Jost et al., 2008; Jost & Hunyady, 2005). Quindi, al fine di proteggere il proprio sè, le persone tendono a credere che le società e i sistemi da cui dipendono siano giusti e buoni (Jost, 2017). Questo processo è noto come giustificazione del sistema e svolge una funzione palliativa in grado di attenuare gli effetti della dissonanza cognitiva, del senso di colpa, dell'ansia e dell’indignazione morale (Wakslak et al., 2007). Ad esempio, in uno studio svolto in Spagna, i partecipanti ai quali era stato chiesto di leggere un articolo di giornale che legittimava la disuguaglianza economica, hanno riportato come ideale una distribuzione più disuguale delle risorse (Wills et al., 2015). Dunque, quando le persone considerano il sistema legittimo ed equo, sono più portate a credere che non vi sia alcun motivo per cambiarlo. Per questo motivo, le persone che hanno interiorizzato maggiormente le credenze che giustificano il sistema tendono a opporsi a diversi tipi di ridistribuzione, siano essi governativi o non governativi (come, ad esempio, tasse e carità) (Rodriguez-Bailòn et al., 2017), e desiderano una distribuzione economica simile a quella che ritengono reale (Willis et al., 2015).

Gli stereotipi sono un esempio di legittimazione del sistema. Secondo il Modello del Contenuto dello Stereotipo, gli stereotipi sui gruppi sociali si formano sulla base di due dimensioni, il calore e la competenza, solitamente raggruppati in modo tale che a una bassa attribuzione di calore corrisponda un’elevata attribuzione di competenza, e viceversa (Fiske et al., 2002). Mentre le persone povere vengono generalmente considerate come dotate di elevato calore ma incompetenti, per le persone ricche di solito è vero il contrario. Ciò determina un doppio processo in cui il bersaglio dello stereotipo viene allo stesso tempo denigrato e valorizzato come compensazione: a titolo di esempio possono aiutarci i luoghi comuni come “povero ma felice” o “ricco ma freddo” (Durante et al., 2017).

Stereotipizzare lungo le dimensioni del calore (basso-alto) e della competenza (bassa-alta) è funzionale alla giustificazione del sistema poiché permette di rafforzare l'idea che sia le persone ricche sia le persone povere meritino la posizione che occupano nella gerarchia sociale. In modo specifico, mentre le persone con uno status elevato (e in particolare i professionisti affidabili, come i medici) vengono considerate meritevoli di ricchezza sulla base della loro maggiore competenza, questo non accade per le persone con un basso status (come i senzatetto) che, al contrario, vengono definite inaffidabili e pigre, oppure come degne di fiducia e meritevoli di aiuto e pietà ma non di ricchezza a causa della loro minore competenza (come le persone con disabilità) (Durante & Fiske, 2017). In linea con quanto appena riportato, le ricerche hanno mostrato che l'uso di stereotipi ambivalenti è più comune nei paesi con una maggiore disuguaglianza di reddito (Durante et al., 2013); ciò suggerisce che i cittadini e le cittadine di paesi con un livello maggiore di diseguaglianza potrebbero sentire un maggiore bisogno di stereotipare individui ricchi e poveri.

La motivazione che porta a credere che la società sia giusta è universale e, come tale, è comune sia tra gli individui di alto sia di basso status - infatti, la legittimazione del sistema è spesso più forte tra le minoranze (Jost et al., 2004), coerentemente con quanto affermato sul lavoro classe. Tuttavia, le persone ricche e le persone povere possono giustificare il sistema in modi diversi.

Nelle società occidentali, per esempio, è più probabile che le persone di rango sociale più elevato legittimino il sistema facendo attribuzioni disposizionali per le disparità economiche. Questo significa che le persone di alto status tendono più probabilmente a pensare che ricchezza, povertà e disuguaglianza siano causate da caratteristiche individuali (come il duro lavoro, la pigrizia o lo sforzo) o da caratteristiche innate o biologiche (Kraus & Keltner, 2013). Allo stesso modo, queste persone credono che la loro posizione nella società sia dovuta al merito personale e che ciò che hanno ottenuto gli è dovuto, cioè pensano di meritare più degli altri (Piff, 2014). Ciò accade anche quando lo status manipolato sperimentalmente durante gli esperimenti scientifici. In uno studio, a degli studenti universitari è stato chiesto di giocare con una versione truccata del Monopoli in cui, attraverso il lancio di una moneta, veniva stabilito se i partecipanti sarebbero stati ricchi o poveri. Ai giocatori ricchi spettavano alcuni vantaggi: ricevevano più soldi per cominciare, lanciavano i dadi due volte e venivano dati loro più soldi quando superavano il “via”. Anche se l'ingiustizia della situazione era ovvia, durante il gioco i giocatori ricchi erano più pressanti, mostravano maggiori manifestazioni di dominio, potere e successo (sia verbali sia non verbali), erano più insensibili verso l'altro giocatore e, cosa più importante, riferivano che la loro vittoria era frutto del loro sforzo e delle loro azioni durante il gioco (Piff, 2013). La convinzione che le situazioni siano il risultato delle proprie azioni, piuttosto che determinate dal contesto o dalla fortuna, sembra correlata al più alto senso di controllo personale che le persone provano nelle loro vite (Kraus et al., 2009). Nei paesi non occidentali, tuttavia, la situazione appare invertita: gli studenti universitari etiopi, ad esempio, fanno attribuzioni più situazionali quando i loro genitori hanno redditi più elevati, forse a causa della natura collettivista della società alla quale appartengono (Bullock et al., 2003). Inoltre, confrontando le isole dell'India occidentale, è stato riscontrato che gli adolescenti delle Barbados (più ricchi) forniscono più attribuzioni situazionali rispetto agli adolescenti dominicani (più poveri), in parte a causa delle informazioni dei media a cui hanno accesso (Wollie, 2009). Confrontando gli studenti musulmani e cristiani in Libano, invece, è emerso che le persone musulmane di status socioeconomico più elevato hanno fornito attribuzioni più strutturali rispetto alle persone musulmane di più basso status, ma lo stesso non è accaduto con le persone cristiane (Payne & Furnham, 1985). Questi risultati suggeriscono che nelle società non occidentali, le convinzioni meritocratiche possono svolgere una funzione di legittimazione del sistema per le classi inferiori, piuttosto che per le classi superiori. Indipendentemente dallo status sociale, tuttavia, gli individui che credono che la ricchezza sia il risultato di uno sforzo e la povertà derivi dalla pigrizia (cioè le persone che fanno attribuzioni disposizionali), mostrano un minore sostegno alla redistribuzione (Nasser & Abouchedid, 2001; Rodriguez-Bailòn et al., 2017) e in particolare alle politiche di welfare. Questa tendenza probabilmente deriva dalla necessità ancestrale di scoprire le persone che tendono a imbrogliare negli scambi sociali su piccola scala (Petersen et al., 2013).

Nelle società occidentali, le persone appartenenti a classi sociali basse accettano maggiormente le gerarchie sociali ingiuste credendo che le persone abbiano la possibilità di cambiare la loro posizione attuale (Cojocaru, 2014). La convinzione che i confini tra le classi sociali siano permeabili e che si possa cambiare il proprio status sociale con relativa facilità è nota come la convinzione di "mobilità sociale". Le convinzioni sulla mobilità sociale, ad esempio, portano i componenti delle minoranze a percepirsi come discriminati in misura minore (Zarate, 2009). Gli individui tendono a sovrastimare la mobilità sociale verso l'alto e allo stesso tempo a sottovalutare la mobilità verso il basso. In altre parole, credono che sia più facile guadagnare una posizione sociale e più difficile perderla, di quanto non sia in realtà (Davidai & Gilovich, 2015). Uno studio condotto negli Stati Uniti ha mostrato che le persone che credevano nell'elevata mobilità sociale erano anche più tolleranti nei confronti della disuguaglianza economica. Questo può accadere sia perché le persone considerano la società ‘mobile’ più equa, sia perché credono di avere anche loro maggiori possibilità di scalare i ranghi della società (Shariff et al., 2016).

La necessità di giustificare il sistema aumenta in determinate condizioni. Una di queste è quando il sistema è minacciato (Kay & Friesen, 2011). Ad esempio, da uno studio è emerso che leggere informazioni sul riscaldamento globale porta le persone a diventare più scettiche sul cambiamento climatico, perché quell’informazione contraddice l'idea di un mondo giusto (Feinberg & Willer, 2011). Altre condizioni si verificano quando le persone percepiscono di avere uno scarso controllo personale (Kay & Friesen, 2011) e devono fare affidamento sul sistema per sentire di avere il controllo sulla propria vita (questo è il caso delle persone che vivono in povertà), quando il sistema è (o viene percepito come) inevitabile o, ancora, quando gli individui dipendono fortemente da esso (Kay & Friesen, 2011). Vivere in un paese con elevate disparità economiche, dove le differenze tra le classi inferiori e superiori sono più salienti, più visibili e potenzialmente percepite come ingiuste, può risultare altamente minaccioso, soprattutto perché la società esacerba l'importanza dello status e dei ruoli. Se a questo aggiungiamo quanto sia onnipresente il sistema economico nella vita di tutti i giorni e a come la sua stratificazione modella la vita di tutti e tutte, non sorprende che le persone sentiranno un bisogno maggiore di credere che sia giusto (soprattutto quando sono povere). Pertanto, le persone possono essere spinte a giustificare il sistema ulteriormente, rifiutando così l'idea di cambiarlo attraverso la ridistribuzione della ricchezza.

C'è una ragione per ritenere che la giustificazione del sistema abbia scopi evolutivi: probabilmente tale tendenza ha contribuito alla coesione e all'ordine sociale, favorendo percezioni di legittimità e armonia sociale, che a loro volta hanno portato a maggiori possibilità di sopravvivenza del sistema sociale (rispetto a sistemi meno stabili caratterizzati dal conflitto interno) (Jost et al., 2018). Inoltre, i risultati di ricerche neuroscientifiche ed etologiche suggeriscono l’origine evolutiva della tendenza a giustificare il sistema. L'amigdala, ad esempio, è una struttura cerebrale coinvolta nel rilevamento delle minacce e nell’ispezione di gruppi gerarchici: gli individui con materia grigia più densa nell'amigdala apprendono più facilmente la posizione dei membri di un sistema sociale (Kumaran et al., 2012). Infatti, le persone con un volume maggiore di amigdala, indipendentemente dallo status sociale, possiedono anche livelli più elevati di giustificazione del sistema e hanno meno probabilità di prendere parte alle proteste (Nam et al., 2018) (sebbene non sia possibile stabilire un nesso causale) (Jost et al., 2018).

Da un punto di vista evolutivo, è plausibile pensare che individui altamente sensibili alle minacce e più abituati alle gerarchie sociali avessero maggiori possibilità di sopravvivenza in un sistema sociale (Jost et al., 2018). Per quanto riguarda il regno animale, le specie che vivono in società complesse devono tenere presenti le diverse relazioni tra dominante e subordinato, che portano a un maggiore sviluppo di regioni cerebrali come la corteccia prefrontale (Dunbar, 2009). Questo è particolarmente vero per gli esseri umani, che appartengono a più gerarchie contemporaneamente. In tal senso, la giustificazione del sistema può aiutare a razionalizzare tali posizioni e la relativa sovrapposizione (Sapolski, 2017). Inoltre, sia gli animali sia gli esseri umani mostrano risposte allo stress in situazioni imprevedibili, anche quando queste sono associate a maggiori ricompense (Coates & Herbert, 2008; Levine et al., 1989). Questo suggerisce che anche gli animali preferiscono la certezza - seppur spiacevole - all'incertezza che prevede però possibilità di miglioramento (Jost et al., 2018). Eppure le disparità di classe delle società contemporanee non hanno precedenti nel regno animale: secondo alcuni studiosi, quando si considera l'impatto estremo della disuguaglianza tra individui ricchi e poveri, nessuna società animale si avvicina a quella degli esseri umani (Jost et al., 2018; Sapolski, 2017).

Conclusioni

In conclusione, le persone rifiutano le elevate disparità economiche e desiderano un mondo più equo. Tuttavia, credono anche che tutto vada bene così com'è e che la società sia giusta, del resto perché non dovrebbe esserlo? Faremmo di tutto pur di evitare di affrontare il fatto che il mondo non è perfetto come vorremmo che fosse. Fortunatamente, i dati ci dicono che c'è ragione per sperare. Viviamo nell'era del progresso: i tassi di mortalità, prevalenza della violenza e livelli di povertà sono straordinariamente inferiori rispetto a 30, 100 o 200 anni fa (Pinker, 2018). È vero che le persone sono influenzate negativamente dalle disparità di classe indipendentemente dalla ricchezza. Ciò nonostante, il crescente interesse per questo tema nel mondo accademico e nella società può portare a una maggiore consapevolezza, aumentando in definitiva la motivazione a lottare per l'uguaglianza (Piff et al., 2018). Ad esempio, quando le persone diventano consapevoli della bassa mobilità sociale, sono meno disposte a difendere la propria società, perché la ritengono meno meritocratica (Day & Fiske, 2017). Con la disuguaglianza in aumento, la conoscenza può essere un'arma potente. Non è l'unica risposta, ma ci porta all'unica domanda: ‘È davvero giusto?’

Se desideri saperne di più su come te la cavi in ​​questa società e su come la disuguaglianza colpisce te e tutti quelli che ti circondano, ecco alcune risorse:

http://www.oecd.org/statistics/compare-your-income.htm

https://www.oxfam.org/en

https://uk.rs-online.com/web/generalDisplay.html?id=i/you-vs-billionaire

 

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