“Non parlare con gli sconosciuti e non accettare caramelle dalle persone che non conosci”. Queste raccomandazioni le abbiamo ricevute molto spesso, quando chiedevamo ai nostri genitori il permesso di uscire di casa da soli; ma qualcosa è cambiato. Il cambiamento dell’ambiente urbano degli ultimi decenni non solo ha trasformato gli spazi secondo la logica della separazione, della segregazione sociale e della specializzazione, perdendo il suo ruolo di scambio sociale (Bassand, 1995), ma ha alimentato anche le percezioni di paura e di rischio nelle persone. In particolare, la paura degli sconosciuti è la paura sociale maggiormente percepita dalle famiglie ed è usata come strumento difensivo per tutelare i propri/ie figli/ie dai rischi a cui potrebbero andare incontro. Prima di procedere con la descrizione di come queste paure sociali siano diventate un focus specifico di ricerca in relazione al tema dell’autonomia di spostamento infantile, vogliamo stimolare la vostra capacità di osservazione e analisi. Vi siete mai chiesti/e, passeggiando per la città, come mai è sempre più raro vedere bambini e bambine camminare da soli/e o in compagnia di amici e amiche senza la supervisione di una persona adulta? Se vi è capitato di porvi questa domanda allora già siete sulla giusta strada; al contrario, se non ci avete mai riflettuto, potrebbe essere un segnale che il problema della mancata autonomia infantile sta diventando una condizione socialmente accettata.
Un fenomeno che parte da lontano
Per procedere con la descrizione di un fenomeno è bene partire della sua definizione. Il report internazionale di Hillman et al. del 1990 ha indagato, per la prima volta, i fattori determinanti la ‘children’s independent mobility’ (CIM; mobilità autonoma dei bambini e delle bambine) misurando la libertà dei bambini e delle bambine di muoversi nel loro quartiere senza la supervisione adulta. Occorre fare, prima di entrare nel vivo della disamina, una precisazione: l’originaria definizione di Hillman et al. (1990) dell’autonomia di spostamento è stata arricchita di ulteriori significati; secondo Schoeppe et al. (2014) per autonomia di spostamento è da intendere anche la libertà per i bambini e le bambine di andare in bici e spostarsi con il trasporto pubblico locale, oppure come sottolineano Carver et al. (2008, 2012) è libertà di gioco fuori casa (per ulteriori approfondimenti si veda Marzi & Reimers, 2018). Hillman e i suoi collaboratori monitorano l’andamento dell’autonomia di spostamento di bambini/e e adolescenti di età tra i 7 e i 15 anni dal 1971. Questo monitoraggio ha evidenziato in Inghilterra un calo drastico della mobilità autonoma dei bambini e delle bambine della scuola primaria[1]: dal 1971 al 2010, si è passati, infatti, dall’86% al 25%; lo stesso calo, anche se in minor misura, si è registrato in Germania, dove dal 1990 al 2010, l’autonomia è passata dal 93% al 76%, e in Finlandia, dove si è passati dall’85% al 65% (Shaw et al., 2013, 2015; Hillman et al., 1990). Nell’ambito della ricerca internazionale condotta nel 2010, che ha coinvolto 16 paesi nel mondo (per una lettura completa si rimanda a Shaw et al., 2015; Marzi & Reimers, 2018): il dato italiano è allarmante, infatti l’Italia si pone al penultimo posto nella classifica generale delle autonomie di spostamento (al pari del Portogallo). La percentuale sul permesso di tornare da scuola a casa da solo/a è dell’8%. Tonucci et al. (2002), all’interno della proposta progettuale “A scuola ci andiamo da soli” del progetto internazionale “La città dei bambini”, avevano rilevato che soltanto l’11% dei bambini e delle bambine della scuola primaria andava a scuola da solo/a, dato che è sceso al 7% nello studio di Alietti et al. del 2011. Ma il dato più recente lo rileva l’ISTAT (2017): nelle città italiane con oltre 50.000 abitanti l’autonomia di bambini/e e ragazzi/e d’età fra gli 8 e i 14 anni viene penalizzata, infatti soltanto il 22,4% si reca a scuola da solo/a. Emerge inoltre che il 30,3% dei bambini/e e dei/lle ragazzi/e del campione percorre un tragitto casa-scuola entro il chilometro di distanza da solo/a o con i loro pari. Dunque, la lettura di questi dati quantifica la dimensione del problema e aiuta a generare il punto di domanda chiave sulla questione: dove individuare le reali cause di tale cambiamento?
Il ruolo della famiglia nella concessione dell’autonomia
Abbiamo iniziato questo articolo con un ricordo della nostra infanzia. Possiamo aggiungere che quelle paure genitoriali non ostacolavano le esperienze autonome, non andavano a minare il rapporto diretto di fiducia genitore-figlio, bensì veicolavano le percezioni di rischio dell’adulto verso altri adulti estranei alla cerchia familiare. Ci veniva data la possibilità di metterci alla prova e di sperimentare il pericolo perché ritenuti competenti, infatti secondo Juul (2001) il bambino nasce competente, perché dispone di nozioni, valori e criteri di valutazione che orientano la sua esperienza nel mondo.
Prima di passare in rassegna i fattori principali (psicosociali, demografici e ambientali) correlati al crollo delle autonomie infantili è importante aprire una breve parentesi teorica sugli stili genitoriali. Partendo dal costrutto di Baumrind (1967, 1971, 1991) sulle tipologie di stile autoritario (authoritative), autorevole (authoritarian) e permissivo (permissive), Maccoby e Martin (1983) ampliano la definizione di stili genitoriali sulla base di due dimensioni, la richiestività (demandingness) e la responsività (responsiveness), aggiungendone un quarto, quello trascurante. La richiestività è definita dalle richieste che i genitori pongono ai bambini e alle bambine esercitando controllo e supervisione. Al contrario, la responsività è il modo in cui i genitori rispondono ai bisogni dei bambini e delle bambine dimostrando loro calore, supporto e accettazione. Gli stili si differenziano per il livello di richiestività e di responsività: ad alta richiestività e bassa responsività corrisponde lo stile autoritario; ad adeguata richiestività e responsività corrisponde lo stile autorevole, mentre a bassa richiestività e alta responsività corrisponde lo stile permissivo. Si conferma come migliore modello di stile genitoriale quello autorevole: infatti, i figli e le figlie di genitori autorevoli presentano livelli migliori di autostima, autonomia, salute mentale e successo scolastico (Baumrind, 1971; Grolnick et al.,1989). Inoltre, secondo Merlin et al. (2013) se un genitore riesce a mantenere alti livelli di responsività e alti livelli di richiestività manifesterà le qualità del buon genitore. Diversamente, i bambini e le bambine di genitori autoritari sviluppano un senso d’autonomia minore rispetto alle altre due tipologie: mancano infatti della capacità decisionale, perché abituati/e a far prendere ai genitori la maggior parte delle proprie scelte (Chan et al., 2007). Esaminando la relazione fra stili genitoriali e autonomia infantile, Pacilli et al. (2013) hanno riscontrato che la promozione dell’autonomia di spostamento è presente in grado superiore quando il genitore manifesta una cura maggiore e un’intrusività minore.
Oggi, la genitorialità viene esercitata e vissuta con eccessiva tutela e l’iperprotezione (si pensi all’accezione terminologica ‘helicopter parent’, ‘genitori elicottero’ data da Cline et al., 1990; Hunt, 2008; Perry et al., 2018) che ne deriva determina una serie di limitazioni che influiscono profondamente sullo sviluppo a lungo termine delle competenze (cognitive, sociali ed emotive) infantili. È utile precisare che i pregiudizi sociali sulle concessioni di autonomia contribuiscono ad alimentare il senso di colpa nei genitori. Come osserva Skenazy (2009) i genitori si trovano spesso nella posizione di non riuscire a bilanciare le loro volontà con le loro decisioni: per i genitori l’autonomia di spostamento rappresenta un dilemma che può minare la loro capacità decisionale. Inoltre, sempre secondo Skenazy (2009), i genitori per respingere ed evitare il giudizio altrui sulle proprie scelte, preferiscono privare, in particolar modo le figlie, dell’autonomia ed essere percepiti iperprotettivi piuttosto che negligenti; questo perché è socialmente radicata l’idea che le bambine e le ragazze necessitino di una protezione maggiore. Numerosi studi (e.g., Alparone e Pacilli, 2012; Foster et al., 2014; Prezza et al., 2001) mettono in risalto la differenza di genere percepita dal genitore; le bambine e le ragazze hanno meno possibilità di muoversi liberamente nel quartiere e di raggiungere anche la scuola in autonomia a differenza dei loro coetanei maschi. Tale associazione viene messa in risalto anche in Brown et al. (2008), dove nella fascia d’età tra gli 8 e i 12 anni a ottenere più permessi per muoversi in autonomia sono i maschi a differenza delle loro coetanee. È interessante quanto emerge nello studio di Lopes et al. (2018) dove le differenze che si registrano tra ragazzi e ragazze (fascia d’età 11-17 anni) sono solo sugli spostamenti verso i luoghi d’interesse (quelli che significano qualcosa per loro perché favoriscono il senso d’appartenenza) e non lungo il tragitto di ritorno da scuola verso casa. Complice dello stato d’apprensione e preoccupazione dei genitori è anche la ricezione delle informazioni sulle modalità di come e quando lasciare tempi e spazi autonomi fuori casa al proprio figlio o figlia; ricezione che risulta poco chiara al punto da farli sentire disorientati (Crawford et al., 2017).
La comunicazione da parte dei mass media, che utilizzano toni allarmanti riguardo la sicurezza delle strade, l’intensità del traffico e il pericolo degli sconosciuti (per approfondire i fattori psicosociali si rimanda ai lavori di Giles-Corti et al., 2009; Lopes, et al., 2014; Foster et al., 2014) alimenta quella che Hillman (1994) definisce ‘parental paranoia’. La composizione del nucleo familiare è un elemento che si correla alle concessioni di mobilità autonoma, infatti Christian et al. (2016) hanno osservato, in un campione di 181 bambini/e d’età compresa tra gli 8 e i 15 anni, che avere fratelli o sorelle d’età maggiore rassicura i genitori nel dare autonomia di spostamento ai più piccoli perché possono sostituire la loro presenza con quella dei figli più grandi. Inoltre, è stato riscontrato da Schoeppe et al. (2015) che la coesione sociale del quartiere, intesa come rete di amicizie, condivisone di valori e rapporti di fiducia, rende il genitore più incline a dare autonomia proprio perché il quartiere è percepito come sicuro. Le interazioni sociali all’interno del quartiere migliorano il clima di solidarietà e responsabilità collettiva, garantiscono alle famiglie la presenza di persone di cui possono fidarsi (Ikeda et al., 2018), incrementano il livello di prosocialità (Prezza, 2007) e secondo Lopes et al. (2018) promuovono l’esplorazione libera. Quanto osservato dagli autori rientra anche nel concetto di ‘affordance’; per una lettura più completa sull’importanza delle ‘affordance’ ambientali e sociali, di quanto cioè la proprietà di un oggetto o di un ambiente stimolino l’interazione attiva dell’individuo con esso ampliandone il significato, si rimanda ai lavori di Gibson (2014) e di Kyttä (2002, 2004).
L'autonomia di spostamento: una scelta negoziare all'interno della famiglia
Se il bambino ha la possibilità di muoversi fuori casa senza il controllo adulto mette alla prova le sue capacità di negoziazione del pericolo in termini di problem solving (Blakely, 1994; Davis et al., 1996), di conoscenza ambientale (Brown et al., 2008), di relazioni sociali volte a costruire il senso di comunità (Love et al., 2020; Prezza et al., 2001; Riazi et al., 2018), che aiuta anche ad arricchire il rapporto familiare con la comunità stessa (Groves, 1997).
L’autonomia di spostamento è parte integrante di un sistema di negoziazione all’interno del nucleo familiare (Blakely,1994) sulla valutazione del rischio circa le paure ambientali e sociali (Francis et al., 2017). La differenza di tali percezioni cambia se a mediare è la madre o il padre; infatti, secondo Alparone et al. (2012), le percezioni materne giocano un ruolo centrale nel concedere autonomia.
Come sottolineano Mikkelsen et al. (2009) i genitori sono sia i principali promotori dell’autonomia sia i principali ostacolatori, nonostante siano consapevoli dei benefici che i bambini e le bambine possono ottenere (Prezza et al., 2005) sul piano fisico, mentale ed emotivo. Un esempio di questo atteggiamento è riscontrabile nell’uso eccessivo, se non esclusivo, dell’automobile che rappresenta per il genitore la giusta scelta da fare (si veda per una rassegna sul tema Mackett, 2013) a discapito dell’autonomia di spostamento dei propri figli (Gilbert et al., 2018) e dei danni che tale abitudine comporta (e.g. dipendenza dal mezzo privato; inquinamento atmosferico; incremento dell’obesità infantile). Per rendere l’idea di come questo fenomeno sia in netta crescita, tanto da far entrare nel vocabolario di uso comune il termine di genitori tassisti, secondo il report Okkio alla Salute (2018) il 62% dei bambini italiani viene accompagnato abitualmente in macchina. Il livello d’istruzione dei genitori e il loro stato socio-economico rappresentano degli indici che si correlano alle condizioni d’autonomia concessa; come osservano Schoeppe et al. (2015), più basso è il grado d’istruzione, specialmente delle madri, più è bassa l’autonomia di spostamento dei bambini e delle bambine dagli 8 agli 11 anni intorno alla propria abitazione. Sempre gli stessi autori hanno notato che i genitori meno istruiti percepiscono un tasso maggiore di criminalità e considerano il contesto più degradante e pericoloso. In Tonucci et al. (2002) e Alietti et al. (2011) l’associazione rilevata era inversa: i genitori con titolo di studio più basso (titolo di licenza media) concedevano una autonomia maggiore ai propri figli e figlie nella fascia d’età tra i 6 e gli 11 anni rispetto ai genitori con livello di studio più alto (diploma superiore o laurea). In aggiunta: la distanza dalla destinazione, le caratteristiche dell’ambiente costruito, il design delle strade, le affordance del quartiere, il tasso di urbanizzazione delle città. Si è visto che le brevi distanze da casa a scuola, nel raggio di 1.1 km, permettono di essere raggiunte in autonomia e favoriscono forme attive di movimento (Lopes et al., 2018). Sempre nello stesso studio, Lopes et al. (2018) hanno osservato che, nella classificazione delle affordance, distinte in quattro categorie (sociali, funzionali, di piacere ed emotive), quelle sociali raggiungono la percentuale più alta nella valutazione della scelta, 35.4% (all’interno di questa categoria “stare con gli amici” arriva al 20.1 %) seguita da quelle del piacere, funzionali ed emotive. Interessante anche la ricerca di Sharmin et al. (2020), nella quale si riscontra che i luoghi in cui sono presenti parchi, negozi e anche abitazioni di amici e amiche hanno un’influenza positiva sui percorsi scelti liberamente dai/lle bambini/e e dagli/lle adolescenti (fascia d’età 10-14 anni); invece gli aspetti topologici (come le distanze) impattano sui percorsi scelti per le destinazioni imposte (tipo l’andare a scuola). Fuori dal contesto di studi che prendono in esame i fattori ambientali, alcuni ricercatori come Timperio et al. (2008), Christian et al. (2016) e Underwood (2012) hanno messo in risalto quanto sia efficace avere un animale domestico, nello specifico un cane, nella promozione dell’autonomia, perché dà un senso di protezione maggiore che va a influenzare positivamente i genitori (specialmente nei confronti delle figlie). I benefici di avere un cane si riscontrano anche sul piano fisico, infatti aumenta il livello di attività fisica quotidiana e la possibilità di esplorare maggiormente e liberamente il quartiere.
Conclusioni
I bambini e le bambine sono scomparsi dalle strade delle nostre città perché nei genitori prevale la paura: hanno paura del traffico, temono che i figli e le figlie possano farsi male e fare incontri pericolosi ma, soprattutto, hanno paura di essere giudicati negligenti se concedono loro autonomia. Come abbiamo visto, il tema della mobilità autonoma dei bambini e delle bambine si correla ad altri temi di fondamentale importanza: le caratteristiche dell’ambiente urbano, la percezione di sicurezza e il ruolo genitoriale. L’ambiente urbano si è trasformato negli ultimi sessanta anni per l’aumento degli spostamenti in automobile diventando più pericoloso e meno accessibile portando le famiglie a ridurre l’autonomia di spostamento dei/lle loro figli/e (Shaw et al., 2015). Lo studio di Sharmin et al. (2020) condotto a Dacca dimostra quanto impattino le proprietà topologiche delle città ad alto tasso di urbanizzazione e crescita demografica sull’autonomia di spostamento dei bambini e delle bambine, perché con il crescere della popolazione e dell’espansione territoriale le strade diventano più trafficate, affollate e percepite come pericolose dai genitori anche per la presenza di persone estranee. La paura del traffico e degli incidenti automobilistici viene indicata come la causa principale che ostacola la concessione di autonomia, ma quello che ha inciso maggiormente sul crollo della mobilità autonoma sono le paure sociali e la interpretazione del ruolo genitoriale (Johannson, 2006; Wolfe et al., 2016). Fino a pochi decenni fa un genitore riteneva che fosse suo compito promuovere il più precocemente possibile l'affrancamento del/la figlio/a dalla tutela parentale. Oggi sembra che il modello si sia capovolto: il genitore ritiene suo dovere accompagnare sempre i/le figli/e, vigilarli/e e tutelarli/e, anche a costo di una onerosa organizzazione familiare. A giustificazione di questo comportamento gli adulti denunciano da un lato i pericoli sociali e ambientali, ma dall'altro tendono a sottostimare le capacità dei bambini e delle bambine. Questo espone i genitori a pericolosi errori educativi e i/le figli/e a rischiose carenze evolutive; non avendo la possibilità di vivere esperienze reali di autonomia i bambini e le bambine non acquisiscono le regole relazionali e gli strumenti cognitivi che permettono loro di gestire le relazioni con i loro pari e di affrontare le situazioni reali (Tonucci et al., 2002). Se la tendenza dominante è quella di iperproteggere i bambini e le bambine, anche per non essere giudicati e accusati di negligenza, questa si esaspera con le bambine e le ragazze perché la protezione nei loro confronti è ritenuta un dovere socialmente percepito (McDonald, 2012). Ma perché è così importante ridare ai bambini e alle bambine la possibilità di riappropriarsi del rapporto con l’ambiente urbano? Prima di tutto per gli effetti sulla salute fisica e psicologica: uno stile di vita attivo aiuta a prevenire sovrappeso e obesità, dà la possibilità di vivere esperienze di autonomia e di gioco nello spazio pubblico durante l’infanzia, incide su relazioni di vicinato più intense, su un più forte senso di comunità e sullo sviluppo delle competenze evolutive (Lopes et al., 2018; Shaw et al., 2015). Permettere ai bambini e alle bambine di recuperare il rapporto con l’ambiente urbano ha effetti positivi anche sulla città, come dimostrano le seguenti esperienze realizzate in Italia: “A scuola ci andiamo da soli”, proposta dal progetto internazionale “La città dei bambini” dell’ISTC-CNR, e il Pedibus. Le differenze tra queste due esperienze sono di carattere metodologico e finalistico; “A scuola ci andiamo da soli” si rivolge ai bambini e alle bambine dai 6 agli 11 anni per andare a scuola e tornare a casa da soli/e, o con gli/le amici/che, e il reale scopo è quello di concedere autonomia anche fuori l’orario scolastico e nei percorsi extra scolastici. L’esperienza richiede un intenso lavoro preparatorio che coinvolge la famiglia, la scuola e l’amministrazione comunale (si veda “La città dei bambini”). Diversamente, il Pedibus prevede percorsi casa - scuola a piedi, da parte dei bambini e delle bambine con l’accompagnamento di adulti volontari, con la finalità di favorire il movimento e limitare l’uso dell’automobile, riducendo le emissioni di Co2 (Giovannacci & Falleri, 2021). Una città a misura e amica dei bambini e delle bambine (kid-friendly) è una città che garantisce la loro partecipazione alla progettazione e alla fruibilità degli spazi; Annunziata e Garau (2018) hanno analizzato, con bambini/e e adolescenti/e d’età tra i 5 e i 13 anni, il grado di relazione diretta tra lo spazio urbano adatto a loro e le caratteristiche dell’ambiente costruito (come la walkability, la distanza dalla destinazione, il volume del traffico, la connettività e prossimità delle strade, gli elementi naturali, le affordance ambientali), arrivando a concludere che se una città presenta criteri di praticabilità allora le possibilità di rendere i suoi spazi a beneficio di tutti/e, in primis i/le bambini/e, aumentano anche nella direzione dell’autonomia di spostamento. La praticabilità della città da parte dei bambini e delle bambine acquisisce un significato di inclusione e di uguaglianza ed è una condizione necessaria nella progettazione della smart city. I bambini e le bambine hanno un valore paradigmatico e il luogo in cui questo può essere espresso con più rilevanza è la città; restituire loro la città significa renderla più vivibile, sicura e sana per tutti/e i/le cittadini/e.
Glossario
Stili genitoriali: sono i comportamenti che descrivono le interazioni genitore-figlio/a e il clima emotivo all’interno del contesto familiare. Nel 1967 Diana Baumrind ha classificato tre principali stili: autoritario, autorevole e permissivo. Lo stile autorevole è lo stile più efficace per un’interazione educativa tra il genitore e il figlio/a perché favorisce l’autonomia del/la bambino/a nel rispetto delle regole genitoriali.
Stranger danger: indica, secondo il Dizionario Collins, “the potential or perceived risk posed by unknown people to children and about which it may be advisable to warn them” cioè “il rischio potenziale o percepito rappresentato da persone sconosciute per i bambini e sul quale può essere opportuno avvisarli”. Le persone sconosciute rappresenterebbero un rischio potenziale o percepito specialmente dai/lle bambini/e.
Stereotipo di genere: insieme rigido di credenze condivise e trasmesse socialmente, su quelli che sono e devono essere i comportamenti, il ruolo, le occupazioni, i tratti e l’apparenza fisica di una persona, in relazione alla sua appartenenza di genere.
Helicopter parent: il termine è stato concettualizzato da Cline e Fay (1990) i quali intendono indicare quei genitori che sono costantemente presenti per i/le loro figli/e e che li/e aiutano a superare tutte le difficoltà specialmente in ambito scolastico. Questo atteggiamento iperprotettivo e di controllo impedisce lo sviluppo autonomo dei bambini e delle bambine.
Parental paranoia o paranoid parenting: tipo di genitorialità esercitata con paura, eccessivo controllo e sorveglianza. Furedi (2001) sostiene che una cultura della paura stia alimentando i comportamenti genitoriali riguardo ogni dettaglio dello sviluppo dei bambini e delle bambine.
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