Mi trovo a Ferrara per un convegno alla quale sono stata invitata, ricercatrice universitaria, poco meno di quarant’anni, e fresca di due maternità, insieme a due altri relatori (uomini): un collega della mia università e un docente di scuola superiore. Un giornalista di una testata locale modera la serata, brillantemente, e al termine dell’evento si avvicina per scambiare due parole dietro le quinte con noi relatori. Si avvicina al primo collega e lo ringrazia per il suo intervento, ne riprende alcuni passaggi definendoli “particolarmente illuminati”. Lo stesso avviene con il secondo relatore. Infine si rivolge a me, con voce sinceramente cordiale: “E lei professoressa, glielo devo proprio dire: è davvero una bella donna!”. Mi sento raggelare, il mio intervento deve essere stato così banale da non poter fare altro commento…non sono stata all’altezza dei miei colleghi …non riesco a rispondere, mortificata. Nei giorni seguenti a mente fredda ripenso all’accaduto. Eppure dal pubblico ci sono state domande dopo il discorso, eppure molte persone a fine serata si sono avvicinate per stringermi la mano. Ma allora perché? Perché un commento così mortificante? La risposta è nella sua semplicità, io credo, quasi banale. “Per fare felice una donna la devi apprezzare per il suo aspetto fisico, per far felice un uomo lo devi apprezzare per la sua intelligenza.” Quel giornalista a modo suo, in buona fede, pensava di farmi stare bene, di essere un buon padrone di casa. Ma soprattutto io! La cosa che mi colpì di più fu che io, nonostante gli anni spesi a studiare ed insegnare cosa sono gli stereotipi sessisti, ci sono cascata con tutte le scarpe: ci ho messo un bel po’ a capire che cosa stava avvenendo ed ho perfino inizialmente messo in dubbio la qualità del mio lavoro.
Come spesso accade da grandi imbarazzi, intellettuali e personali, nascono occasioni di più profonde comprensioni. Io ho compreso allora in maniera più lucida cosa succede alle donne quando incontrano nel loro lavoro stereotipi sessisti, anche se pensano di esserne immuni. Ho compreso meglio il fenomeno che nella letteratura psicosociale viene chiamato stereotype threat o “minaccia legata allo stereotipo”.
Cos’è la minaccia legata allo stereotipo e come
ostacola le donne nel lavoro?
La minaccia legata allo stereotipo è un'esperienza individuale che avviene quando uno stereotipo relativo ad un gruppo al quale si appartiene viene utilizzato inconsapevolmente dall’individuo “come interpretazione plausibile per qualcosa che si sta facendo, per un'esperienza che si sta avendo, o per una situazione in cui si è, e che ha rilevanza per la percezione del sè "(Steele, 1997, p.616).
Provo a spiegarmi meglio. Immaginate un drago a due teste. Una testa buona è quella che ha dentro tutte le qualità positive legate allo stereotipo di un gruppo a cui facciamo parte. Questa parte ci sorride e ci rende più facile svolgere i nostri compiti; è la parte dello stereotipo che ci fa comodo, tipo “le donne sono brave ad ascoltare”. E così se chiedo alle mie studentesse di tesi di fare delle interviste raramente mi dicono di no.
Poi però c’è la testa cattiva, quella minacciosa, piene delle qualità stereotipate negative, le qualità che ci faranno fallire nel nostro lavoro, ad esempio: “Le donne non sono brave in matematica”. E così se chiedo alle mie studentesse di fare delle semplici elaborazioni statistiche più frequentemente si tirano indietro spaventate, e quelle che si cimentano lo fanno molte volte con una insicurezza tale da produrre spesso un lavoro imperfetto nonostante abbiano fatto il percorso di studi che le rende in grado di svolgere questo compito senza problemi.
Questo drago a doppia testa vive dentro di noi con tutte le sue convinzioni stereotipiche. Si alimenta degli stereotipi che respira nei contesti di vita in cui siamo. Ed anche se noi li combattiamo questi stereotipi, e sappiamo che non sono veri, il drago a due teste nel momento del dunque, nel momento in cui dobbiamo compiere una data azione, prendere una decisione, cavalcando come un surfista l'onda delle nostre paure, farà in modo che il nostro agire si conformi allo stereotipo. Ci spingerà in altre parole ad agire in modo tale da confermare lo stereotipo, rendendoci difficile scegliere e decidere in base a cosa sappiamo e vogliamo fare noi in quella circostanza; in base a chi siamo veramente.
Si tratta di meccanismi inconsci, difficili da sradicare, che purtroppo ostacolano le donne soprattutto nei loro percorsi lavorativi. E questo è dimostrato da un ampio paniere di ricerche sul tema.
A cominciare dagli obiettivi professionali che le donne si danno durante i loro studi. Una serie di ricerche ha indagato fino a che punto i concetti di istruzione e maternità sono incorporati nel concetto di sé delle studentesse universitarie. Nello specifico è stato valutato l’identificazione con le aspirazioni accademiche e familiari (Hai, Devos, e Dunn, 2014). Uno dei presupposti chiave di questo studio è che queste aspirazioni non sono per loro natura in contrasto tra di loro e che quindi una ragazza possa avere alte aspirazioni professionali e alte aspirazioni familiari. Sulle misure che riflettono i processi di identificazione e scelta (a livello esplicito, e quindi chiedendo in modo diretto alle studentesse quali fossero le loro aspirazioni), le studentesse universitarie davano leggermente una maggiore enfasi ai loro obiettivi accademici rispetto a quelli familiari. Sorprendentemente però le quando queste aspirazioni venivano misurate a livello implicito (ovvero attraverso test che misurano le associazioni automatiche che facciamo tra noi stessi ed alcune scelte di vita) erano le aspirazioni familiari a risultare la componente più importante per il sé e che le ragazze vivevano un conflitto tra aspirazioni familiari e professionali. Questi studi hanno chiaramente mostrato l’influenza pervasiva e distorsiva che le distinzioni di genere convenzionali hanno ancora sul concetto di sé delle studentesse universitarie, quanto le renda di fatto meno libere di determinare cosa vogliono essere, e chi vogliono essere nella loro vita.
Quando le donne terminano gli studi ed entrano nel mondo del lavoro, gli stereotipi di genere naturalmente diventano compagni stabili e subdoli sabotatori nei percorsi di carriera. Nell’esaminare oltre 40 anni di ricerche sugli stereotipi di genere negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Germania, in Cina e in Giappone, Schein (2001) conclude che il “pensare ai dirigenti – pensare agli uomini” è un'equazione universale che è rimasta praticamente inalterato dal 1973, nonostante gli enormi cambiamenti nella composizione della forza lavoro globale. Il tempo passa, il mondo cambia, ma gli uomini sono giudicati (sia dagli uomini che dalle donne) stabili, forti, assertivi e realizzatori pragmatici del lavoro. Mentre le donne sono spesso viste come emotivamente instabili, deboli e timide. Quando pensiamo ad un dirigente lo pensiamo automaticamente e tendenzialmente come dotato delle caratteristiche, atteggiamenti e temperamenti che stereotipicamente si associano agli uomini e non a quelli delle donne. I dirigenti vengono pensati così anche dalle stesse donne ed è facile immaginare quanto questo renda più difficili gli avanzamenti di carriera al femminile. Non solo perché le decisioni di avanzamento si basano su questi stereotipi e quindi è più facile che un HR scelga un uomo, ma anche perché le donne stesse si convincono inconsapevolmente di non essere adatte a ruoli di questo tipo, introiettando per insicurezza o scrupolo un sabotatore maschilista dentro di sé. In uno studio di Powell, Butterfield e Parent (2002), infatti, i partecipanti associavano ad un buon manager caratteristiche prevalentemente maschili, indipendentemente del sesso, l’età, l’istruzione e l’esperienza lavorativa. Quindi a parità di competenze sia uomini che donne considerano gli uomini più adatti ad un ruolo manageriale. Queste convinzioni legate al “lack of fit”, ovvero alla sensazione di non essere la persona adatta ad una data posizione, scoraggiano le donne a formulare delle aspirazioni di carriera ambiziose. In una ricerca condotta dal sito Career Builder nel 2017 si è evidenziato che gli uomini hanno ancora aspirazioni sulla loro carriera molto più elevate rispetto alle donne. Nello specifico, gli uomini che aspirano a diventare membri di un board o AD di un’azienda sono più del doppio delle donne. Inoltre sono oltre il 22% le donne che si aspettano di rimanere in un inquadramento di primo livello, mentre gli uomini sono solo il 10%.
La minaccia legata allo stereotipo non si limita a “sabotare” l'avanzamento di carriera, ma giunge anche a “sabotare” l'azione di donne che si siano già faticosamente conquistate un ruolo dirigenziale. In uno studio condotto da Bergeron, Block ed Echtenkamp (2009) veniva richiesto ad alcune donne di compiere una simulazione di un compito manageriale. Alle partecipanti veniva detto che erano state appena promosse nella posizione di Vicepresidente senior delle risorse umane perché la persona che ricopriva questo ruolo precedentemente si era improvvisamente dimessa. Ad un gruppo di donne veniva descritto il predecessore come una donna dalle caratteristiche stereotipicamente femminili. Mentre a un altro gruppo il predecessore veniva descritto come un uomo dalle caratteristiche stereotipicamente maschili. Infine veniva richiesto alle partecipanti di prendere una serie di decisioni in base ad alcuni materiali che venivano forniti dagli sperimentatori. I risultati mostrano chiaramente che le donne a cui era stato detto che il loro predecessore era un uomo con caratteristiche maschili performavano in maniera significativamente peggiore rispetto alle donne che non avevano avuto questa informazione. In altri termini in maniera inconsapevole queste donne si convincevano di non essere all’altezza del loro ruolo e, rose da una insicurezza stratificatasi in secoli di pregiudizi di genere, sabotavano da sole le loro capacità manageriali. È interessante notare che lo stesso effetto non si è osservato negli uomini: gli uomini a cui veniva detto che il loro predecessore era una donna non peggioravano la loro performance. Di nuovo il drago a due teste convince le donne a confermare le credenze e gli status quo che sono imposti da una cultura e una società ancora troppo piegata sullo sbilanciamento di genere. Ed è per questo che molte donne non fanno carriera. Non solo perché sono discriminate nel loro posto di lavoro, ma perché, azzoppate da meccanismi inconsci, sono esse per prime a dubitare di potere indossare i panni di status più elevato. E non avendo un obiettivo di crescita non crescono.
Alla fine la minaccia legata allo stereotipo genera nelle donne un conflitto identitario che mette in pericolo il loro benessere e la loro performance lavorativa. È quello che emerge da uno studio condotto su 34 aziende italiane dall’Università Cattolica in collaborazione con Valore D. Quando nelle donne sono sotto la minaccia dello stereotipo infatti percepiscono in contrasto la loro identità professionale con quella di genere, senza che vi sia nessun dato reale a suggerirlo. Questo conflitto interiore determina un calo nel rendimento e un peggioramento del benessere (Manzi Paderi e Benet-Martinez, 2019).
Come si può arrestare l’effetto negativo degli
stereotipi di genere nel mondo del lavoro?
Diverse ricerche hanno attestato che questi stereotipi contribuiscono in modo negativo ai risvolti professionali delle donne (ad esempio, Reskin 1988), e che la discriminazione sul posto di lavoro continua ad essere un impedimento all'uguaglianza di genere (ad esempio, Gorman 2005).
Questo scenario nel nostro Paese è particolarmente cupo. Il divario di genere fra uomini e donne soprattutto sul fronte del lavoro e delle retribuzioni ha visto negli ultimi anni addirittura un vistoso regresso (World Economic Forum, 2018). Cioè, per essere chiari, noi stiamo peggiorando. Nella classifica globale stilata per il 2018 sul gender gap l'istituzione internazionale mette in evidenza che in merito alla parità nella partecipazione e nelle opportunità economiche l'Italia si classifica al 118/mo posto su 144 Paesi!
E naturalmente l’assenza delle donne nel mondo del lavoro e il loro arresto nei percorsi di carriera sono deleteri anche per le organizzazioni: quando si impoverisce la diversità di un sistema, è matematico e inevitabile che il sistema stesso deperisca, ed è naturale quindi che la presenza femminile, diversificando, porti profitto alle aziende. Il dato emerge chiaramente in uno studio del 2016 (Peterson Institute for International Economics) su 21.980 aziende quotate in borsa in cui si evidenzia che avere almeno il 30% delle donne in posizioni di leadership può far aumentare fino al 6% il margine di profitto netto aziendale. Questo scenario è confermato da un più recente studio di McKinsey (2017) su 300 società, che ha rilevato un gap del 47% di rendimento a vantaggio delle imprese con una presenza di donne nei comitati esecutivi.
Intervenire per ridurre la presenza degli stereotipi nei contesti lavorativi diventa dunque urgente. Ma come fare? Anche qui la ricerca ci viene in aiuto. Suggeriamo un elenco non esaustivo di ricette risultate efficaci per ridurre l’effetto della minaccia legata allo stereotipo.
1. Conosci il tuo nemico. Molti interventi per ridurre la minaccia legata allo stereotipo sono legati a fare aumentare la consapevolezza dello stereotipo stesso. Ad esempio Johns, Schmader e Martens (2005), nell’introduzione di un compito di matematica ad un gruppo di studenti (uomini e donne), spiegavano l’esistenza dello stereotipo negativo sulle donne e materie scientifiche e l’effetto che la minaccia allo stereotipo ha sulla loro performance, mentre ad un altro gruppo di studenti (uomini e donne) no. Nel primo gruppo uomini e donne ottenevano uguali punteggi nel test, mentre nel secondo gruppo le donne non preformavano bene come gli uomini.
2. Riscrivere la storia com'è veramente. Altri interventi hanno mostrato come sia efficace riscrivere la storia correggendo le distorsioni dello stereotipo sessista per aiutare le donne a subire meno la minaccia legata allo stereotipo. Dallo studio di Rosenthal e Crisp (2005) è emerso che le partecipanti donne indotte a riflettere sulle effettive somiglianze esistenti tra uomini e donne tendevano a mostrare meno preferenze per le carriere femminili stereotipate rispetto ai partecipanti a cui non veniva richiesta questa riflessione.
3. Farsi ispirare. O altrimenti detto con le parole di Dasgupta e Asgari (2004) “Vedere per crederci”. Queste due studiose infatti hanno dimostrato che basta avere sotto gli occhi donne in posizioni di leadership per disinnescare la minaccia legata allo stereotipo di genere, soprattutto quando l’esposizione a questi modelli di ruolo avviene frequentemente.
4. Le parole contano. Quella del linguaggio è una frontiera innovativa per la lotta contro gli stereotipi e anche se ha raccolto attenzione solo recentemente promette molto bene. In Svezia è stato recentemente introdotto il pronome neutro “hen” per ridurre gli effetti degli stereotipi di genere nel linguaggio. Gustafsson Sendén, Bäck, & Lindqvist, (2015) hanno mostrato che negli annunci di lavoro in cui si utilizzava il pronome neutro “hen” i partecipanti giudicavano il ruolo proposto come ugualmente adatto per uomini e donne. Invece quando nell’annuncio si utilizzavano termini come “il candidato” più spesso veniva immaginato un uomo come adatto al profilo descritto.
C'è moltissimo insomma che possiamo fare per impedire che secoli di percezioni distorte riescano ad allungare le dita dentro di noi, e ingarbugliarci le nostre sicurezze, le nostre potenzialità, la nostra libertà. C'è molto che possiamo e dobbiamo fare, per noi e le generazioni seguenti, per arrivare a rispondere a chi ci fa un commento sul nostro aspetto fisico dopo un intervento ad un congresso: “Grazie, ma mi interessa di più sapere che ne pensa di quello che ho detto.”
Bibliografia
Bergeron, D. M., Block, C. J., & Echtenkamp, A. (2006). Disabling the able: Stereotype threat and women's work performance. Human Performance, 19, 133-158. doi:10.1207/s15327043hup1902_3
Dasgupta, N., & Asgari, S. (2004). Seeing is believing: Exposure to counterstereotypic women leaders and its effect on the malleability of automatic gender stereotyping. Journal of Experimental Social Psychology, 40, 642-658.
Gorman, E. H. (2005). Gender stereotypes, same-gender preferences, and organizational variation in the hiring of women: Evidence from law firms. American Sociological Review, 70, 702–728. doi: 10.1177%2F000312240507000408
Gustafsson Sendén, M., Bäck, E. A., & Lindqvist, A. (2015). Introducing a gender-neutral pronoun in a natural gender language: the influence of time on attitudes and behavior. Frontiers in psychology, 6, 893. doi:10.3389/fpsyg.2015.00893
Hai, K., Devos, T., & Dunn, R. (2014). Mixed aspirations: Distinctions and relationships between the implicit and explicit self-concepts of college women. Self and Identity, 13, 535-555. doi: 10.1080/15298868.2013.879537
Johns M., Schmader T.,Martens A. (2005), Knowing is Half the Battle: Teaching Stereotype Threat as a Means of Improving Women’s Math Performance. Psychological Science, 16, 175-179.
Manzi, C., Paderi, F., Benet-Martinez (2019). Antecedents and consequences of identity integration, paper presented at the symposium “Identity juggling game”, SPSP Annual Meeting, Portland, OR, 7-9 febbraio 2019.
McKinsey (2017). Women Matter. Report disponibile nel sito: https://www.mckinsey.com/~/media/McKinsey/Featured%20Insights/Women%20m…
Powell, G. N., Butterfield, D., & Parent, J. D. (2002). Gender and Managerial Stereotypes: Have the Times Changed?. Journal of Management, 28, 177-193.
Reskin B. (1988). Bringing the Men Back In: Sex Differentiation and the Devaluation of Women's Work. Gender & Society, 2, 58-81. DOI: 10.1177/089124388002001005
Rosenthal, H.E.S. & Crisp, R.J.(2006). Reducing stereotype threat by blurring Intergroup boundaries. Personality and Social Psychology Bulletin, 32, 501-511.
World Economic Forum (2018), The Global Gender Gap Report 2018. Report disponibile nel sito: wef.ch/gggr18
Schein, V. E. (1973). The relationship between sex role stereotypes and requisite management characteristics. The Journal of Applied Psychology, 57, 95–100. doi: 10.1037/h0037128
Steele, C. M. (1997). A threat in the air: How stereotypes shape intellectual identity and performance. American Psychologist, 52, 613.